«Non ci credo! Ma è praticamente la tariffa di Mongibello!»

«Proprio così. Naturalmente il riscaldamento è un po' carente. Ma ho deciso di riscaldare soltanto la camera da letto.»

«In questo momento si sta bene, però.»

«Oh, oggi ho alzato la caldaia in tuo onore,» rispose Tom con un sorriso.

«Cosa è successo? È morta una delle tue ziette lasciandoti una fortuna?» chiese Marge fingendo ancora di non credere ai suoi occhi.

«No, è stata una mia decisione. Ho stabilito che voglio godermi quello che ho a modo mio, finché dura. Ti ho già detto che quel lavoro che stavo cercando di procurarmi a Roma non è andato in porto, così ho fatto i conti, ed eccomi qui. Mi ritrovavo in Europa con in tutto duemila dollari in tasca, allora ho deciso di spassarmela un po' finché duravano, e quando la pacchia fosse finita di ritornare in America e ricominciare tutto daccapo.» Tom le aveva raccontato nella sua lettera che il lavoro che stava cercando, vendita di apparecchi acustici per una compagnia americana, gli era sembrato insopportabile. E poi l'uomo che l'aveva intervistato non pensava che lui fosse il tipo adatto. Tom le aveva inoltre spiegato che l'uomo era arrivato un attimo dopo che si erano parlati e questo era il motivo per cui non l'aveva più raggiunta da Angelo, quel giorno a Roma.

«Duemila dollari non ti dureranno molto a questo ritmo.»

Stava tastando il terreno per scoprire se Dickie gli avesse dato del denaro. «Dureranno fino a quest'estate,» disse Tom come se avesse già fatto i conti. «Comunque ho deciso che mi merito un trattamento di lusso, per una volta. Ho passato i mesi peggiori dell'inverno girando come uno zingaro, vivendo praticamente di nulla. Ne ho avuto abbastanza di quella vita.»

«Ma dove sei stato in questi mesi?»

«In ogni caso non con Tom, voglio dire non con Dickie,» si corresse subito, confuso per l'involontario lapsus. «So che tu lo pensi. Probabilmente ho visto Dickie meno di te, in quel periodo!»

«Non prendermi in giro, adesso!» gorgogliò Marge. I cocktail stavano cominciando a darle alla testa.

Tom mescolò altri tre cocktail nella caraffa. «In quel periodo ho visto Dickie soltanto durante il nostro viaggio a Cannes e i due giorni a Roma in febbraio.» Non era vero e lo sapeva, dato che lui stesso le aveva scritto che «Tom aveva passato» parecchi giorni con Dickie a Roma, dopo il viaggio a Cannes. Adesso che si trovava faccia a faccia con Marge scoprì che si vergognava del fatto che lei sapesse, o sospettasse, che lui e Dickie avessero passato tanto tempo insieme e soprattutto che lei pensasse che erano veramente colpevoli di ciò di cui lei li aveva accusati nella sua lettera a Dickie. Si morse le labbra e versò ancora da bere, odiandosi per la sua vigliaccheria.

A pranzo Tom si pentì di aver fatto fare roast beef freddo, un piatto terribilmente caro in Italia. Marge lo stava sottoponendo a un interrogatorio più serrato di quello della polizia, sullo stato d'animo di Dickie l'ultima volta che lo aveva visto a Roma. Tom dovette ammettere di aver passato dieci giorni con Dickie a Roma, dopo il loro giro a Cannes, e dovette rispondere a un sacco di domande su Di Massimo, il pittore con il quale lavorava Dickie, sullo stato di salute di Dickie, se aveva fame o no, e a che ora si alzava al mattino.

«Cosa pensi che sentisse per me? Ti prego, dimmelo sinceramente. Sono in grado di sopportarlo.»

«Penso che fosse preoccupato per te,» le rispose pieno di zelo. «Penso che... si sia trovato in una di quelle situazioni senza uscita, così frequenti per un uomo, cioè che abbia paura del matrimonio, tanto per cominciare e...»

«Ma io non mi sono mai sognata di chiedergli di sposarmi!» protestò Marge.

«Lo so, ma...» Tom si costrinse a proseguire, per quanto l'argomento fosse insopportabile per lui. «Diciamo che non era in grado di sopportare la responsabilità del fatto che tu tenevi tanto a lui. Penso che desiderasse un rapporto meno vincolante, più libero, con te.» Così aveva detto tutto e niente.

Marge lo fissò con il suo antico sguardo un po' vacuo, poi fece uno sforzo e proseguì coraggiosamente: «Be', è passata tanta acqua sotto i ponti, ormai. L'unica cosa che mi interessa, adesso, è che fine abbia fatto Dickie.»

Anche la sua rabbia al sospetto che lui e Dickie avessero passato l'inverno insieme era svanita, acqua passata anche questa, pensò Tom. Proprio perché si era rifiutata di crederci all'inizio e ormai la cosa non era più importante. Tom le chiese in tono circospetto: «Non ti ha scritto, per caso, mentre si trovava a Palermo?»

Marge scosse il capo. «No, perché?»

«Mi interessava sapere la tua opinione sul suo umore in quel periodo. E tu gli hai scritto?»

La ragazza esitò. «Sì... a dire il vero l'ho fatto.»

«Come era la tua lettera? Te lo chiedo solo perché ho l'impressione che ogni piccola cosa, anche una lettera poco amichevole, avrebbe potuto sconvolgerlo più di quanto non fosse.»

«Oh... non saprei neppure io che genere di lettera fosse. Piuttosto amichevole, direi. Gli comunicavo che stavo per tornare negli Stati Uniti.» Lo guardò con aria innocente.

Tom si divertiva a fissarla negli occhi. Si divertiva a vedere qualcun altro abbassare lo sguardo mentre mentiva. Stavano parlando di quella sporca lettera nella quale gli diceva di aver dichiarato alla polizia che lui e Dickie erano praticamente inseparabili. «Allora non deve essere stata importante,» terminò Tom con un sorriso caramelloso, appoggiandosi allo schienale della sedia.

Restarono in silenzio per qualche attimo, quindi Tom le chiese notizie del suo libro, dell'editore e quanto lavoro le restasse ancora da fare. Marge si gettò sull'argomento con entusiasmo. Tom aveva l'impressione che se solo fosse riuscita a rivedere Dickie e a vedere il suo libro pubblicato entro l'inverno prossimo, sarebbe praticamente scoppiata per la felicità, facendo un botto fragoroso quanto sgradevole! E così si sarebbe tolta di mezzo, finalmente!

«Pensi che dovrei offrirmi di andare a parlare con il signor Greenleaf?» le chiese Tom. «Sarei ben felice di andarlo a trovare a Roma...» Era una bugia bella e buona. C'era troppa gente a Roma che l'aveva visto nella parte di Dickie Greenleaf. «Oppure credi che dovrei invitarlo qui? Potrei ospitarlo se lo desidera. Dove sta a Roma?»

«È ospite presso amici americani che hanno una casa molto grande. Si chiamano Northup e stanno in via Quattro Novembre. Credo che sarebbe gentile da parte tua farti vivo. Ti scrivo l'indirizzo esatto.»

«Buona idea. Non mi può vedere, vero?»

Marge gli indirizzò un sorrisetto impacciato. «Francamente non molto. Anzi direi che è un po' troppo severo nei tuoi riguardi, tutto considerato. È convinto che tu abbia spremuto Dickie come un limone.»

«Non è così. Mi spiace che il progetto di far tornare Dickie a casa non sia andato in porto, ma ho cercato di spiegargli la situazione. Appena ho saputo che Dickie era scomparso gli ho anche scritto una lettera molto gentile dicendogli tutto quello che sapevo del figlio. Possibile che non sia servito a nulla?»

«Un po' credo che sia servito ma... Oh, sono desolata, Tom! La tua bella tovaglia!» Marge aveva goffamente rovesciato il bicchiere pieno, adesso peggiorava la cosa pasticciando col tovagliolo sulla splendida tovaglia di pizzo.

Tom corse in cucina a prendere una salvietta bagnata. «Non è nulla,» esclamò, guardando il legno della tavola scolorirsi rapidamente malgrado il suo intervento. Non era della tovaglia che si preoccupava, ma del suo bel tavolo di legno.

«Oh, mi dispiace!» continuava a balbettare scioccamente Marge.

Tom sentì di odiarla. Improvvisamente gli tornò in mente il reggiseno appeso alla finestra a Mongibello. Se l'avesse invitata a fermarsi per quella notte la sua biancheria intima sarebbe stata appesa alla spalliera della sua sedia. L'idea gli fece venire il voltastomaco. La gratificò di un sorriso stentato. «Spero che mi farai l'onore di accettare un letto per questa notte. Non il mio, naturalmente!» aggiunse poi ridendo, «ma di sopra ci sono due camere da letto e sei la benvenuta se vuoi restare.»

«Grazie, grazie mille. Accetto volentieri.» Gli lanciò un sorriso radioso.

Tom le cedette la sua camera da letto, dato che il letto dell'altra stanza era soltanto un divano un po' più grande del normale e non molto comodo, soprattutto se paragonato al suo enorme letto a due piazze. Marge non si fece scrupoli e si chiuse in camera per fare un pisolino subito dopo pranzo. Tom vagò irrequieto per casa chiedendosi se in camera ci fosse qualcosa di compromettente che avrebbe fatto meglio a nascondere. Il passaporto di Dickie era nella fodera di una delle valigie in fondo all'armadio. Non gli venne in mente niente altro. Ma le donne, si sa, vedono tutto. Persino donne come Marge. Era probabile che si divertisse a cacciare il naso ovunque. Infine non resistette più, entrò in camera mentre dormiva e prese la valigia. Il pavimento scricchiolò, le palpebre di Marge sbatterono e si spalancarono.

«Ho solo bisogno di prendere una cosa che mi serve,» le sussurrò Tom, «scusami!» e uscì in punta di piedi. Probabilmente non se ne sarebbe neppure ricordata, pensò, dato che non si era svegliata del tutto.

Più tardi fece visitare la casa all'ospite, le mostrò gli scaffali pieni di libri rilegati in pelle nella stanza accanto alla sua, libri che, a quanto le disse, aveva trovato in casa. Erano suoi, invece, li aveva comperati a Roma, a Palermo e a Venezia. Gli venne in mente che a Roma ne aveva già una decina e che l'agente giovane li aveva osservati a lungo e da vicino, per leggere i titoli. Non c'era di che preoccuparsi, comunque, neppure se lo stesso agente fosse venuto ancora a Venezia. Fece vedere a Marge il portone principale, con i larghi gradini in pietra. La marea era bassa e c'erano ben quattro gradini allo scoperto, i due più bassi ricoperti di uno spesso strato di muffa e alghe viscide e fluttuanti. Lo strato era molto scivoloso, fatto di lunghi filamenti vischiosi che pendevano come una massa di scarmigliati capelli verde scuro. A Tom quei gradini facevano ribrezzo. Marge, al contrario, li trovò romantici. Si chinò per guardarli meglio, fissando l'acqua scura del canale. Tom represse a stento l'impulso di spingerla dentro.

«Perché non prendiamo una gondola e non entriamo da questa parte, stasera?» chiese entusiasta.

«Ma certo!» Sarebbero andati fuori a cena, naturalmente. Tom si sentì agghiacciare al pensiero della lunga e noiosa serata che li attendeva, dato che non avrebbero cenato prima delle dieci. Poi lei avrebbe voluto prendere il caffè seduta in piazza San Marco fino alle due di notte.

Tom lanciò un'occhiata al cielo veneziano grigio e coperto di foschia, quindi seguì con lo sguardo un gabbiano che scivolava silenzioso nel cielo e andava delicatamente a posarsi sui gradini di un palazzo dalla parte opposta del canale. Stava cercando di decidere a quale dei suoi nuovi amici avrebbe potuto telefonare per chiedergli se poteva andarlo a trovare con Marge per l'aperitivo, verso le cinque. Naturalmente avrebbero fatto tutti i salti dalla gioia nel conoscerla. Optò per un inglese di nome Peter Smith-Kingsley. Peter aveva un pastore afgano, un pianoforte e un bar sempre ben fornito. Tom decise che Peter era la persona più adatta perché non voleva mai che i suoi ospiti se ne andassero. Avrebbero potuto restare lì finché non veniva l'ora di andare a cena.

 

24

 

Tom chiamò il signor Greenleaf da casa di Peter Smith-Kingsley verso le sette quella sera stessa. Il signor Greenleaf fu più cordiale di quanto Tom si aspettasse e si dimostrò penosamente avido di qualunque piccolo particolare Tom potesse raccontargli sul figlio. Peter, Marge e i Franchetti, una coppia di fratelli triestini molto attraenti conosciuti di recente, erano nella stanza accanto e potevano sentire tutta la conversazione, per cui Tom dovette recitare meglio di quanto avrebbe fatto se fosse stato completamente solo.

«Ho già detto a Marge tutto quello che so,» gli disse, «le racconterà le cose che mi sono sfuggite nella lettera. Mi spiace solo che a questo punto non posso essere di maggior aiuto alla polizia.»

«La polizia,» borbottò il signor Greenleaf torvo. «Comincio a convincermi che Richard sia morto. Per qualche strano motivo questi italiani sembrano piuttosto riluttanti ad ammetterlo. Si comportano come veri e propri dilettanti, o come vecchie zitelle che giocano a fare gli investigatori privati.»

Tom fu colpito dalla franchezza con la quale il signor Greenleaf parlava della possibilità che Dickie fosse morto. «Pensa che Dickie possa essersi suicidato, signor Greenleaf?» gli chiese Tom a bassa voce.

Greenleaf sospirò. «Non lo so proprio. È possibile, però. Non ho mai pensato che mio figlio fosse una persona molto equilibrata, caro Tom.»

«Temo di dover concordare con la sua opinione,» convenne Tom. «Desidera parlare con Marge adesso? È di là.»

«No, no, grazie. Quando torna?»

«Credo che abbia intenzione di tornare a Roma domani stesso. Se lei desiderasse fare un salto qui a Venezia, magari per riposarsi un po', signor Greenleaf, sarei ben lieto di ospitarla.»

Il signor Greenleaf declinò l'invito. Non era affatto necessario esporsi a quel modo, pensò Tom. Si comportava come se stesse andando a caccia di guai, eppure non riusciva a frenarsi. Il signor Greenleaf lo ringraziò per la telefonata e lo salutò in tono molto cortese.

Tom tornò nell'altra stanza. «Nessuna novità da Roma,» annunciò con aria scoraggiata al gruppo.

«Oh,» Peter sembrava deluso.

«Ecco, per la telefonata, Peter,» disse Tom mettendo del denaro sul pianoforte. «Grazie mille.»

«Ho un'idea!» esclamò Pietro Franchetti con il suo inglese dall'accento britannico. «Dickie Greenleaf ha barattato il suo passaporto con i documenti di qualche oscuro pescatore napoletano, oppure di un contrabbandiere di sigarette romano, così può vivere finalmente la vita tranquilla che aveva sempre sognato di condurre. Succede, però, che la persona che ha acquistato il passaporto di Dickie non è abile come falsario quanto pensava di essere, di conseguenza ha dovuto sparire dalla circolazione. La polizia farebbe bene a cercare un uomo che non sia in grado di mostrare i propri documenti di identificazione, scoprirne la vera identità e quindi mettersi alla ricerca della persona in possesso di quei documenti e senza dubbio scoprirà che si tratta di Dickie Greenleaf!»

Risero tutti, e Tom più degli altri.

«L'unica falla di questa geniale idea,» obiettò Tom, «è che c'è un sacco di gente che conosceva Dickie e che lo ha visto a gennaio e a febbraio...»

«E chi?» lo interruppe Pietro con un'irritante belligeranza tutta latina, che risultava ancor più irritante tradotta in inglese.

«Io, tanto per cominciare. Comunque, volevo dire che ormai la banca ha stabilito che le firme false partono da dicembre.»

«Però è una buona idea,» cinguettò Marge già alticcia dopo il suo terzo drink, appoggiandosi allo schienale della poltrona di Peter. «Un'idea degna di Dickie. È possibile che l'abbia messa in pratica subito dopo Palermo, quando si è ritrovato a dover fronteggiare, oltre a tutto il resto, anche la faccenda delle firme false. Io non credo assolutamente che quelle firme siano false. Sono convinta, piuttosto, che Dickie sia talmente cambiato che anche la sua calligrafia ne ha risentito.»

«Lo penso anch'io,» la spalleggiò Tom. «D'altra parte i pareri degli esperti non sono unanimi nel dire che si tratta di falsi. Gli Stati Uniti sono divisi sulla questione e la banca di Napoli li segue a ruota. D'altra parte a Napoli non si sarebbero mai accorti che quelle firme erano dei falsi se non avessero ricevuto la segnalazione dagli Stati Uniti.»

«Mi chiedo se ci sia qualche notizia sui giornali di stasera,» esclamò Peter cercando di infilarsi furtivamente una scarpa che si era tolta, probabilmente perché gli faceva male. «Volete che esca a comprarli?»

Ma uno dei Franchetti si offrì di andarci lui e corse fuori come un razzo. Lorenzo Franchetti portava un gilè a ricami rosa, stile inglese, un completo di stoffa e di fattura inglese e pesanti scarpe, anche quelle inglesi. Il fratello vestiva più o meno nello stesso stile. Peter, dal canto suo, vestiva con abiti di produzione italiana dalla testa ai piedi. Tom aveva notato, andando a teatro e ai vari party, che se un uomo vestiva in stile inglese doveva essere per forza un italiano, e viceversa.

Altre persone arrivarono proprio mentre Lorenzo rientrava con i giornali. Ancora discussioni, ancora scambi di commenti e ipotesi idiote, ancora eccitazione per le notizie del giorno. La casa di Dickie a Mongibello era stata venduta a un americano per una cifra due volte più alta di quella richiesta in origine. Il denaro sarebbe stato depositato presso la banca napoletana finché Greenleaf non venisse a reclamarlo.

Lo stesso giornale pubblicava una vignetta raffigurante un uomo inginocchiato sotto il tavolo, il quale, alla moglie che gli chiedeva: «Cerchi un bottone della camicia?» rispondeva: «No, cerco Dickie Greenleaf.»

Tom aveva sentito dire che nei night club di Roma la scomparsa di Dickie era diventata oggetto di barzellette e satire.

Uno degli americani appena arrivati, un certo Rudy, invitò Tom e Marge a un cocktail-party al suo albergo il giorno seguente. Tom stava già per declinare l'invito, ma Marge lo precedette e rispose che sarebbe stata felicissima di partecipare. Tom non pensava che lei si sarebbe fermata così a lungo dato che a colazione aveva accennato al fatto che sarebbe partita molto presto. Il party sarebbe stato talmente noioso, pensò Tom. Rudy, che diceva di essere un antiquario, era un personaggio volgare e chiassoso, e indossava abiti vistosi. Tom riuscì a tirare Marge fuori da quella casa prima di darle il tempo di accettare altri inviti che le avrebbero fornito la scusa per restare più a lungo.

Marge si comportò in modo così frivolo e stordito, durante l'interminabile pasto di ben cinque portate, da ridurre Tom all'esasperazione. Ancora una volta, però, riuscì a dominarsi e a reagire in modo calmo e controllato. Come una ranocchia trapassata da un ago con la corrente elettrica per un esperimento scientifico non può far niente se non aspettare e prepararsi alla prossima scarica, così Tom cercava di reagire con filosofia alle sventate considerazioni della ragazza. Lei, intanto, sparava teorie di questo tipo: «Forse Dickie ha finalmente trovato se stesso nella sua pittura ed è fuggito come Gauguin su qualche isola tropicale.» A Tom venne un conato di vomito. Poi Marge si gettò a capofitto in una serie di fantasie su Dickie e i mari del Sud gesticolando mollemente per sottolineare le sue parole sognanti. Ma il peggio doveva ancora venire, pensò Tom: il tragitto in gondola. Se solo avesse cacciato in acqua una di quelle mani ributtanti, forse uno squalo gliela avrebbe strappata via con un morso. Ordinò un dolce che proprio non riusciva a mandar giù. Ma ci pensò Marge a mangiarlo per lui.

Marge volle una gondola privata, naturalmente. La gondola pubblica che faceva servizio regolare con una decina di passeggeri da San Marco alla Salute non andava bene per lei, così presero una gondola tutta per loro. Era l'una e mezzo di notte. Tom sentiva in bocca un sapore amaro per i troppi caffè, e il cuore gli balzava in petto con ritmo irregolare. Sapeva che non sarebbe riuscito a prender sonno fino all'alba. Si sentiva esausto per cui si accasciò sui sedili della gondola con lo stesso languore di Marge, stando bene attento però che le loro gambe non si sfiorassero, neppure per sbaglio. Marge era ancora di umore scintillante e si stava intrattenendo per conto suo con un lungo monologo sul sorgere del sole a Venezia che, a sentir lei, aveva già visto in occasione di un'altra visita alla città. Il dolce ondeggiare dell'imbarcazione e il ritmico colpo di remi del gondoliere gli procurarono uno stato di strano torpore. La distesa d'acqua fra San Marco e i gradini di casa gli sembrò interminabile.

Ora i gradini erano sommersi, tranne gli ultimi due, mentre l'acqua lambiva dolcemente il bordo del terzo, agitando le alghe che ondeggiavano in modo disgustoso. Tom pagò con un gesto meccanico il gondoliere e si trovava davanti al massiccio portone quando si rese conto di non aver portato le chiavi con sé. Si guardò intorno per vedere se c'era modo di arrampicarsi da qualche parte, ma non era neppure in grado di toccare il davanzale della finestra con la punta delle dita. Prima ancora che aprisse bocca Marge era scoppiata a ridere fragorosamente.

«Scommetto che non hai portato le chiavi! Santo cielo che avventura! Bloccati sulla porta di casa con le acque limacciose che infuriano contro di noi, e niente chiavi!»

Tom cercò di sorridere. E perché diavolo avrebbe dovuto venirgli in mente di portarsi dietro due chiavi lunghe trenta centimetri e pesanti quanto un paio di rivoltelle? Si girò e urlò al gondoliere di tornare a riprenderli.

«Mi dispiace, signor mio,» gli urlò questi di rimando con una risatina divertita. «Ma devo tornare subito a San Marco, ho un appuntamento!» e continuò a remare senza badare più a loro.

Marge rise di nuovo. «Qualche altro gondoliere di passaggio ci tirerà su. Non è divertente?» Stava schiacciata contro il muro sulla punta dei piedi.

Non era una bella serata. Faceva freddo e ben presto cominciò a cadere una pioggerellina gelida. Forse sarebbe riuscito a far venire fin là la gondola che faceva servizio traghetto, pensò Tom, ma questa non arrivava. L'unica imbarcazione in vista era un grosso motoscafo che si dirigeva verso il molo di San Marco. La speranza che il motoscafo si scomodasse a venirli a prendere era minima, ma Tom ci provò comunque. Il motoscafo, pieno di luci e di gente, continuò per la sua strada puntando verso il molo dall'altra parte del canale. Marge si era seduta sul gradino più alto abbracciandosi le ginocchia con le braccia, e non faceva nulla. Infine un malandato barcone a motore, molto simile a un battello di pescatori, rallentò e qualcuno gridò verso di loro: «Chiusi fuori?»

«Abbiamo dimenticato le chiavi!» spiegò Marge in tono ilare.

Si rifiutò, però, di montare in barca. Disse che preferiva attendere sui gradini finché Tom non faceva il giro dall'altra parte e non le apriva il portone principale. Tom la avvertì che ci sarebbero voluti una ventina di minuti, se non più, e che avrebbe finito per prendersi un raffreddore, seduta lì al freddo. Alla fine si lasciò convincere. L'italiano li portò all'attracco più vicino, in prossimità dei gradini della Salute. Rifiutò di accettare del denaro per la sua cortesia, ma prese volentieri il pacchetto di sigarette che Tom gli offrì. Tom non capiva bene perché quella notte la calle San Spiridione lo terrorizzava più del solito, più di quando era solo. Marge, naturalmente, non si lasciò minimamente impressionare dalla stradina e non smise un solo attimo di chiacchierare.

 

25

 

Il mattino seguente Tom fu svegliato prestissimo dai colpi rimbombanti del batacchio sulla porta. Si infilò la vestaglia e scese. Era il postino con un telegramma, così dovette correre di nuovo di sopra a prendere i soldi per la mancia. Poi rimase in piedi, nel soggiorno gelato, a leggerlo.

 

CAMBIATO IDEA. AVREI PIACERE INCONTRARVI

ARRIVO ALLE 11.45 DOMANI MATTINA

H. GREENLEAF

 

Tom rabbrividì. In fondo se l'era aspettato, pensò. No, non era proprio così. L'aveva, piuttosto, temuto. Oppure era colpa dell'ora? In fondo era appena l'alba. Il soggiorno appariva grigio e tetro. E poi quel «voi» di incontrarvi dava al telegramma un tono talmente arcaico e raggelante. In genere nei telegrammi italiani c'erano sempre errori molto più divertenti. Come si sarebbe sentito, per esempio, se al posto dell'H della firma avessero messo per errore una R o una D?

Si precipitò di sopra e si tuffò nel letto caldo cercando di dormire ancora un po'. Continuava a chiedersi se Marge sarebbe venuta a bussare alla sua porta per sapere a cosa era dovuto tutto quell'andirivieni, infine si convinse che neppure i colpi rimbombanti del batacchio erano riusciti a svegliarla. Si immaginò il suo benvenuto al signor Greenleaf, con una energica stretta di mano, e cercò di prevenire le domande che gli avrebbe posto, ma la sua mente era confusa per la stanchezza e questo gli provocava una sensazione di disagio e paura. Era troppo intontito per riuscire a immaginare con lucidità una sequenza di domande e risposte, e troppo teso per riaddormentarsi. Gli venne voglia di preparare il caffè e svegliare Marge. Per lo meno avrebbe potuto parlare con qualcuno. Ma proprio non riusciva a sopportare l'idea di entrare in quella stanza e vedere lo spettacolo di tutta la sua biancheria intima, reggicalze compreso, sparsa ovunque, proprio non poteva.

Fu Marge a svegliarlo. Aveva già fatto il caffè, gli annunciò.

«Cosa ne pensi?» le disse Tom con un sorriso. «Stamattina ho ricevuto un telegramma dal signor Greenleaf che arriva in mattinata.»

«Ma davvero? E quando hai ricevuto il telegramma?»

«Stamattina molto presto. Se non è stato un sogno.» Lo cercò con lo sguardo. «Eccolo lì.»

Marge lo lesse. «Avrei piacere di incontrarvi,» ripeté con un sorriso. «È molto gentile da parte sua. Spero proprio che gli dia un po' di sollievo. Scendi o ti porto il caffè qui?»

«Scendo subito.» Stava già infilandosi la vestaglia.

Marge indossava già un paio di pantaloni e un maglione. I calzoni erano di velluto a coste neri, di buon taglio, fatti su misura, pensò Tom, perché fasciavano la sua figura curvilinea come meglio non avrebbero potuto. Prolungarono l'ora del caffè fino all'arrivo di Anna e Ugo alle dieci con il latte fresco, le brioches e i giornali del mattino. Poi fecero dell'altro caffè per berlo col latte bollente. Era una di quelle mattine in cui i giornali non parlavano né di Dickie né del caso Miles. Certi giorni era così, poi le edizioni pomeridiane ne avrebbero parlato di nuovo, anche se in effetti non c'era proprio nulla da dire, còme per ricordare ai lettori che Dickie non era ancora ricomparso e che l'omicidio di Miles non era ancora stato risolto.

Marge e Tom andarono insieme alla stazione a prendere il signor Greenleaf alle undici e tre quarti in punto. Aveva ricominciato a piovere e il tempo era talmente freddo e ventoso che in breve la pioggia si trasformò in nevischio. Si fermarono al riparo della pensilina scrutando la folla di viaggiatori in arrivo. Infine lo videro, pallido e solenne. Marge gli corse incontro e gli schioccò un bacio sulla guancia, l'anziano signore le sorrise.

«Salve Tom!» esclamò cordialmente porgendogli la mano. «Come sta?»

«Molto bene, signore, e lei?»

Nonostante Tom si fosse offerto di portare la piccola valigia del signor Greenleaf, questi preferì darla a un portabagagli che li seguì sul motoscafo. Tom propose di andare subito a casa sua, ma il signor Greenleaf espresse il desiderio di passare prima in albergo.

«Vi raggiungerò non appena mi sarò registrato. Vorrei provare il Gritti. È per caso vicino a dove vive?» chiese il signor Greenleaf.

«Non molto, ma può andare a piedi fino a San Marco e da lì prendere una gondola per attraversare il canale. Però se vuole solo registrarsi possiamo accompagnarla, poi andare a pranzare tutti insieme, a meno che lei non voglia parlare da solo con Marge.» Era ridiventato il vecchio e ritroso Ripley.

«Sono qui prima di tutto per parlare con lei!» dichiarò il signor Greenleaf.

«Ci sono novità?»

Il signor Greenleaf scosse il capo. Era palesemente nervoso e lanciava occhiate assenti e irrequiete fuori del finestrino del motoscafo, senza registrare nella sua mente le novità di quel paesaggio che attiravano il suo sguardo malgrado tutto. Non aveva risposto alla proposta di Tom per il pranzo. Tom incrociò le braccia, assunse un'espressione paziente e conciliante e non cercò più di parlare. D'altra parte il motore del motoscafo era molto rumoroso. Il signor Greenleaf e Marge conversavano con aria noncurante di alcune conoscenze romane. Tom si rese conto che i due si intendevano a meraviglia per quanto non si fossero mai incontrati prima del viaggio del signor Greenleaf a Roma.

Pranzarono in un modesto ristorante vicino al ponte di Rialto, specializzato in frutti di mare che teneva esposti in un bancone all'ingresso. Uno dei grandi vassoi di portata conteneva quella varietà di piccoli polipi rosa carico che a Dickie piacevano tanto. Tom lo fece notare a Marge mentre vi passavano davanti. «Peccato che Dickie non sia qui con noi!»

Marge sorrise gaiamente. Era sempre di buon umore quando si avvicinava il momento di mangiare.

Il signor Greenleaf fu più loquace durante il pranzo, ma il suo viso mantenne un'espressione dolorosamente assente, e il suo sguardo continuò a vagare irrequieto mentre parlava, come se sperasse di veder entrare Dickie da un momento all'altro. No, la polizia non aveva trovato nulla di nulla che potesse essere definito un indizio tangibile, disse, così lui aveva deciso di far venire in Italia un detective privato americano per far luce su quella faccenda.

La notizia bloccò il boccone in gola a Tom. Anche il signor Greenleaf, evidentemente, doveva avere il sospetto latente, oppure l'illusione un po' ingenua che un detective americano potesse dimostrarsi più efficiente della polizia italiana. Ma la palese inutilità di quella trovata lo colpì come doveva aver colpito Marge, a giudicare dal viso perplesso e attonito della ragazza.

«Potrebbe essere un'ottima idea,» approvò Tom.

«Lei ha stima della polizia italiana?» gli chiese il signor Greenleaf.

«In fondo devo ammettere di sì,» rispose Tom. «E poi c'è il vantaggio che i poliziotti italiani parlano l'italiano e possono girare dappertutto e interrogare qualsiasi persona sospetta. Immagino che il suo detective parli italiano, vero?»

«Veramente non saprei,» rispose il signor Greenleaf confuso, come se si rendesse conto solo in quel momento che avrebbe dovuto richiederlo ma che nella sua sbadataggine non ci aveva pensato affatto. «Il detective si chiama McCarron e ha fama di essere molto in gamba.»

Probabilmente non conosceva una sola parola di italiano, pensò Tom. «Quando arriva?»

«Domani o dopodomani. Dovrò essere di ritorno a Roma per riceverlo, comunque.» Il signor Greenleaf aveva finito la sua porzione di vitello alla parmigiana. Non si poteva dire che avesse mangiato molto.

«Tom ha una casa splendida!» esclamò Marge, attaccando la sua torta multistrati al rum.

Tom cercò di trasformare in un sorriso la sua occhiata di fuoco.

L'interrogatorio vero e proprio, pensò Tom, sarebbe arrivato a casa, una volta che lui e il signor Greenleaf fossero rimasti soli. Sapeva che il signor Greenleaf voleva parlare a quattr'occhi con lui, di conseguenza suggerì di bere subito il caffè al ristorante, impedendo a Marge di proporre di andarlo a bere in casa. A Marge piaceva il caffè della sua caffettiera a filtro, per cui rimase in soggiorno con loro per una buona mezz'ora, nonostante fosse evidente che era di troppo. Marge mancava totalmente di sensibilità, pensò Tom. Infine la ragazza colse l'occhiata severa che Tom le lanciava, indicandole alternativamente le scale, si portò la mano alla bocca con aria sorpresa e annunciò che sarebbe salita in camera per schiacciare uno splendido pisolino. Era del suo solito inattaccabile buon umore, e aveva chiacchierato per tutto il pranzo con il signor Greenleaf, come se naturalmente Dickie non fosse affatto morto e lui, insomma, non doveva, ma proprio non doveva prendersela così a cuore perché non gli faceva per niente bene alla salute. Come se ancora nutrisse qualche speranza di diventare sua nuora un giorno o l'altro.

Il signor Greenleaf si alzò in piedi e cominciò a camminare avanti e indietro con le mani affondate nelle tasche della giacca, come un direttore d'azienda che si accinge a dettare una lettera alla segretaria. Non aveva fatto nessun commento sul fasto della casa, anzi probabilmente l'aveva a malapena notato, si rese conto Tom.

«Ebbene, Tom,» cominciò con un sospiro. «È uno strano finale questo, non le pare?»

«Finale?»

«Già, insomma, lei che si stabilisce in Europa e Richard...»

«Nessuno di noi ha considerato l'ipotesi che possa essere ritornato in America,» suggerì Tom in tono conciliante.

«No, è impossibile. Le autorità doganali americane sono state messe sul chi vive e non se lo sarebbero lasciato scappare.» Il signor Greenleaf continuò a camminare avanti e indietro senza guardarlo. «Qual è la sua vera opinione sul luogo dove possa essersi nascosto?»

«Ebbene, signore, potrebbe essere nascosto ovunque, in Italia... non avrebbe nessuna difficoltà. Basta che non usi un albergo dove sia necessario registrarsi.»

«E in Italia esistono molti alberghi nei quali non sia necessario registrarsi?»

«No, non ufficialmente. Ma chiunque conosca l'italiano e gli italiani come li conosce Dickie può trovare una scappatoia. A pensarci bene se avesse dato una bella mancia per comprare il silenzio del proprietario di qualche oscura pensione nel sud d'Italia potrebbe restare lì in incognito indefinitamente, anche se l'uomo fosse al corrente della sua vera identità.»

«E lei pensa che stia facendo proprio una cosa del genere?» Il signor Greenleaf lo fissò improvvisamente con la stessa espressione mogia che Tom aveva notato la sera del loro primo incontro.

«No, io... Però è possibile. Non potrei dirle altro.» Fece una breve pausa. «Mi spiace dirglielo, signor Greenleaf, ma a mio parere c'è una possibilità che Dickie sia morto.»

L'espressione del vecchio non cambiò. «A causa di quello stato depressivo di cui mi ha parlato nella lettera? Che cosa le ha detto con esattezza, quella volta a Roma?»

«Non era per le cose che diceva... era per il suo stato d'animo generale.» Aggrottò la fronte. «La tragedia di Freddie Miles l'aveva ovviamente sconvolto. Dickie è fatto così... È il tipo d'uomo che detesta ogni genere di pubblicità e ogni genere di violenza.» Si passò la lingua sulle labbra. La sua angoscia nel tentare di esprimersi chiaramente era genuina. «Mi disse che se fosse successo qualcos'altro, anche una cosa minima, si sarebbe fatto saltare le cervella... o non sapeva cosa avrebbe fatto. Poi, per la prima volta da quando lo conosco, ho sentito che la sua pittura non lo interessava più. Forse era un fatto temporaneo, ma fino a quel momento avevo sempre pensato che Dickie aveva la pittura a cui aggrapparsi, qualunque cosa gli capitasse.»

«Prende davvero così sul serio la pittura?»

«Sì, questo sì,» affermò Tom senza incertezze.

Il signor Greenleaf fissò di nuovo il soffitto, con le mani intrecciate dietro le spalle. «Peccato che non si riesca a rintracciare questo Di Massimo. Potrebbe sapere qualche cosa di utile. So che lui e Dickie dovevano andare in Sicilia insieme.»

«Non lo sapevo.» Il signor Greenleaf lo aveva saputo da Marge, Tom ne era certo.

«Anche Di Massimo è scomparso, se mai è esistito. Sono propenso a credere che Dickie se lo sia inventato per convincermi che stava dipingendo sul serio. La polizia non riesce a rintracciare nessun pittore che si chiami Di Massimo da nessuna parte.»

«Io non l'ho mai visto,» lo informò Tom. «Per quanto non abbia mai avuto modo di dubitare della sua identità o della sua esistenza. Dickie me ne ha parlato due o tre volte.»

«Cosa intendeva dire prima con quella frase 'Se fosse successo qualcos'altro'? Quale altra brutta avventura aveva avuto, prima di quella di Freddie Miles?»

«Ebbene, al momento non capii a cosa si riferisse, ma adesso credo di sapere di cosa stava parlando. La polizia lo aveva interrogato a proposito di una barca affondata a San Remo. Qualcuno le ha parlato di questa storia?»

«No.»

«Nei pressi di San Remo è stata ritrovata recentemente una barca affondata di proposito. Sembra che la barca sia scomparsa proprio il giorno stesso in cui io e Dickie ci trovavamo nei paraggi e avevamo fatto un giro in una piccola imbarcazione di quel tipo. Era una di quelle barchette che si affittano per fare il giro del porto o roba simile. Comunque quella barca fu affondata e sul fondo sono state rinvenute tracce di sangue. La barca è stata ritrovata subito dopo il caso Miles e, a quell'epoca, nessuno riusciva a rintracciare me, dato che stavo facendo un viaggio in giro per l'Italia, così hanno chiesto a Dickie dove mi trovassi. Credo che per qualche tempo Dickie sia stato convinto che la polizia pensasse che mi aveva assassinato!» Rise.

«Santo Dio!»

«Io stesso ne sono al corrente soltanto perché un funzionario della polizia mi ha fatto alcune domande al riguardo alcune settimane fa, proprio qui a Venezia. Il fatto più strano è che io non ero minimamente conscio del fatto che mi stavano cercando, finché non l'ho scoperto leggendo un giornale qui a Venezia. Così sono andato alla prima stazione di polizia a identificarmi.» Tom sorrideva ancora. Aveva deciso, alcuni giorni prima, che era meglio per lui raccontare tutta la storia al signor Greenleaf anche se questi non aveva mai sentito parlare dell'incidente della barca di San Remo. Era senz'altro meglio che farglielo scoprire dalla polizia, d'altra parte lui aveva già dichiarato di essere stato a Roma con Dickie nel momento esatto in cui la polizia lo stava ricercando. Inoltre il racconto quadrava con lo stato depressivo di Dickie all'epoca.

«Non capisco questa storia fino in fondo.» Adesso il signor Greenleaf si era seduto sul divano e ascoltava con attenzione.

«Adesso si è smontata da sola, poiché sia io sia Dickie siamo vivi e vegeti. L'unico motivo per cui gliene ho accennato è che Dickie era al corrente che la polizia mi stava cercando, perché gli avevano chiesto poco prima dove mi trovassi. È possibile che al primo colloquio con la polizia non sapesse veramente dove fossi, ma non poteva non sapere che ero ancora in Italia. Però non ha detto alla polizia di avermi visto neppure quando sono andato a Roma apposta per lui. Non ha certo mostrato molto spirito di collaborazione, evidentemente non era nello stato d'animo adatto. Questo lo so con precisione perché proprio mentre Marge parlava con me in albergo a Roma, Dickie era andato alla polizia. Evidentemente aveva deciso che la polizia se la sbrogliasse per conto suo. Per quanto lo riguardava, non aveva nessuna intenzione di dire dove mi trovassi.»

Il signor Greenleaf scosse il capo con un gesto paterno e vagamente impaziente, come se la cosa non lo stupisse affatto.

«Credo che quella fosse proprio la sera in cui disse che se fosse successo qualcos'altro di brutto... La faccenda mi ha causato un certo imbarazzo qui a Venezia. La polizia deve aver pensato che ero un povero idiota a non essermi reso conto prima che ero ricercato, comunque resta il fatto che proprio non lo sapevo.»

«Mmm,» commentò il signor Greenleaf senza eccessivo interesse.

Tom si alzò per versare un brandy.

«Temo di non essere assolutamente d'accordo con lei sul fatto che Richard possa essersi suicidato,» affermò il signor Greenleaf.

«Neppure Marge. Secondo me è una possibilità che non va esclusa. Però non è neppure l'ipotesi più probabile.»

«Lei crede? E quale ritiene che sia l'ipotesi più probabile?»

«Che si stia nascondendo,» affermò Tom. «Posso offrirle un brandy, signore? Immagino che dopo l'America questa casa le sembri piuttosto fredda, vero?»

«In effetti è così,» rispose il vecchio prendendo il bicchiere.

«Ormai Dickie potrebbe essere in molti altri paesi, a parte l'Italia. Potrebbe essere andato in Grecia, in Francia, o in qualunque altro posto dopo essere rientrato a Napoli da Palermo, dato che, allora, non lo stavano ancora cercando. L'allarme è cominciato molto più tardi.»

«Lo so, lo so,» esclamò il signor Greenleaf stancamente.

 

26

 

Tom aveva sperato che Marge si dimenticasse dell'invito al party dell'antiquario che abitava al Danieli. Ma non era così. Verso le quattro del pomeriggio il signor Greenleaf era tornato in albergo a riposarsi un po', e non era ancora uscito dalla porta che già Marge ricordava a Tom che per le cinque erano attesi al party.

«Vuoi andarci sul serio?» le chiese Tom. «Io non mi ricordo neppure come si chiama.»

«Maloof. M-a-1-o-o-f,» gli ricordò Marge pronta. «Non è necessario starci molto, però vorrei proprio andarci.»

Inutile cercare di farle cambiare idea. Ciò che Tom detestava più di tutto era lo spettacolo che offrivano di se stessi: non uno, ma due dei principali protagonisti del caso Greenleaf esposti all'attenzione di tutti, come un paio di acrobati con tutti i riflettori puntati su di loro sulla pista di un circo. Sapeva bene che per Maloof loro erano solo un paio di nomi di richiamo aggiunti alla lista degli invitati, ospiti d'onore dei quali si sarebbe vantato per mesi. Era tutto così volgare, pensò Tom. E Marge non avrebbe potuto giustificare la sua storditezza neppure ostentando la sua indistruttibile sicurezza che Dickie sarebbe presto ricomparso in mezzo a loro. Tom ebbe persino l'impressione che la ragazza ingollasse un martini dopo l'altro solo perché erano gratis, come se a casa sua non avesse avuto tutto quello che le serviva, oppure come se lui non fosse pronto a offrirgliene molti altri quella sera quando si sarebbero incontrati con il signor Greenleaf per la cena.

Tom sorseggiò lentamente il suo drink e cercò di stare lontano da Marge per tutta la durata del party. Sì, era lui l'amico di Dickie Greenleaf, conveniva se qualcuno glielo chiedeva, però conosceva appena Marge Sherwood.

«La signorina Sherwood è ospite da me in questi giorni,» diceva con un sorriso imbarazzato.

«È dov'è il signor Greenleaf? Peccato che non l'abbiate portato con voi,» eslamò Maloof già incerto sulle gambe, come un goffo elefante, stringendo con la mano un enorme Manhattan in una coppa di champagne. Portava un chiassoso completo a scacchi di tweed inglese, una stoffa, pensò Tom, che gli inglesi probabilmente fabbricavano con grande riluttanza soprattutto per americani come Rudy Maloof.

«Credo che il signor Greenleaf stia riposando. Abbiamo appuntamento con lui per cena.»

«Oh,» esclamò Maloof. «Ha visto i giornali stasera?» La domanda suonò rispettosa, quasi deferente.

«Sì, li ho visti.»

Maloof annuì senza aggiungere altro. Tom si chiese che dettaglio insignificante gli avrebbe riferito il suo ospite se gli avesse detto di non averli ancora visti. I giornali quella sera dicevano soltanto che il signor Greenleaf era arrivato a Venezia ed era sceso al Gritti Palace. Non parlavano di un detective privato in arrivo a Roma né il giorno seguente, né nessun altro giorno, cosa che fece nascere in Tom alcuni dubbi sul racconto di Greenleaf. Gli sembrava uno di quei racconti travisati a forza di essere riportati, se non addirittura il parto della sua fantasia turbata. Una di quelle cose in cui, dopo un po' di tempo, ci si vergogna di aver creduto. Come il sospetto che Marge e Dickie fossero amanti a Mongibello, o sul punto di diventarlo. Oppure come la paura che si era presa per l'affare delle firme false e il modo precipitoso con cui aveva abbandonato l'identità di Dickie Greenleaf. In effetti tutta la faccenda delle firme si era afflosciata come un palloncino gonfiato. L'ultimo verdetto era che sette esperti su dieci, in America, avevano dichiarato che le firme erano autentiche. Avrebbe potuto firmare un'altra ricevuta per la banca americana e continuare per sempre a essere Dickie Greenleaf, se solo non avesse permesso alla sua fantasia e ai suoi timori di prendergli la mano. Tom cercò di assumere un'espressione intelligente. Con un orecchio stava ascoltando il racconto di Maloof che si sforzava di suonare arguto e profondo nel descrivergli un'escursione alle isole di Murano e Burano fatta quella mattina. Tom annuiva con aria attenta mentre la sua mente vagava a tutt'altri pensieri. Forse doveva credere alla storia del signor Greenleaf sull'arrivo imminente del detective privato, per lo meno finché non fosse smentita dai fatti, però non si sarebbe lasciato turbare e non avrebbe mostrato il minimo timore, decise.

Tom rispose come un automa a qualcosa che Maloof gli aveva chiesto, questi rise soddisfatto e si allontanò lasciandolo finalmente solo. Tom seguì il suo ospite con lo sguardo rendendosi conto di essere stato scortese con lui, anzi di essere scortese in assoluto e decise che sarebbe stato opportuno fare uno sforzo per modificare il suo atteggiamento. In fondo essere gentile anche con quella masnada di commercianti da quattro soldi - Tom aveva visto alcuni campioni del ciarpame che trattavano sparsi sul letto nella stanza dove avevano lasciato i soprabiti - faceva parte del dovere di un gentiluomo. Ma gli ricordavano troppo la gente a cui aveva detto addio per sempre a New York; per questo al solo vederli era stato colto da un irrefrenabile desiderio di darsela a gambe.

L'unico motivo per cui si trovava lì era Marge, dopotutto, l'unico. Era lei e lei sola che doveva biasimare. Tom mandò giù un sorso di martini, guardò il soffitto e cercò di convincersi che in pochi mesi il suo sistema nervoso e la sua pazienza sarebbero stati in grado di reggere nuovamente gente di quel genere, se si fosse mai trovato nelle circostanze di doversi mescolare ancora con tipi simili. Per lo meno da quando aveva lasciato New York qualche passo avanti l'aveva fatto, e ne avrebbe fatti altri, decise. Fissò il soffitto e sognò di andarsene in Grecia, da Venezia giù per l'Adriatico, oltre il mar Jonio e da là a Creta. Sì, l'avrebbe fatto al sopraggiungere dell'estate. A giugno. Giugno. Come suonava dolce quella parola, pigra, limpida e traboccante di sole e di calore! I suoi sogni durarono pochi secondi, però. Le roboanti e volgari voci americane si aprirono di nuovo un varco nelle sue orecchie e affondarono come artigli nei tendini del collo e della schiena. Senza neppure rendersene conto, lasciò il suo rifugio nell'angolo e si diresse verso Marge. Nella stanza c'erano solo altre due donne, le orribili mogli di un paio di altrettanto orribili uomini di affari, e poi c'era Marge che, non poteva negarlo, era più attraente delle altre due. La sua voce, però, era più sgradevole; simile alla loro ma molto, molto più sgradevole.

Fu lì lì per esortarla ad andarsene poi, visto che secondo il galateo era impensabile che l'uomo proponesse di lasciare una festa, si morse la lingua e si unì al gruppo di Marge ostentando un sorriso vacuo. Qualcuno gli riempì il bicchiere. Marge, intanto, parlava di Mongibello e raccontava del suo libro mentre i tre uomini di mezza età dalle tempie grigie, dai crani pelati e dai volti ottusi pendevano rapiti dalle sue labbra.

Quando infine, alcuni minuti dopo, fu Marge stessa a proporre che se ne andassero, dovettero sostenere una fiera lotta con Maloof e con la sua marmaglia, evidentemente ubriachi, per evitare che si unissero di autorità a loro nella cena con il signor Greenleaf.

«Ma Venezia è fatta proprio per questo...» biascicava Maloof con aria ebete, approfittando dell'occasione per passare il braccio attorno alla vita di Marge e palparla un po' mentre cercava di convincerla a fermarsi ancora. Tom pensò che era una vera fortuna che non avesse mangiato nulla perché altrimenti avrebbe vomitato in quell'istante. «Qual è il numero di telefono del signor Greenleaf? Telefoniamogli subito!» Maloof caracollava impavido verso il telefono.

«Credo che sia meglio che ce ne andiamo in fretta da questo posto!» sussurrò cupamente Tom all'orecchio di Marge. La prese con fare autoritario per il gomito e la spinse verso la porta, senza smettere di sorridere e di salutare gli ospiti lungo il percorso.

«Ma che ti prende?» gli chiese Marge quando furono fuori della sala.

«Nulla, ho avuto solo l'impressione che il party stesse degenerando un po',» le rispose Tom cercando di sdrammatizzare il suo comportamento con un sorriso noncurante. Marge era un po' brilla, ma non abbastanza da non accorgersi che c'era qualcosa in lui che non andava. Sudava abbondantemente e la sua fronte era imperlata di goccioline. L'asciugò con la mano e continuò: «La gente come quella mi deprime. Sempre a parlare di Dickie, tutto il tempo; non sappiamo neppure chi sono e non mi importa nulla di saperlo. Mi fanno ribrezzo!»

«Ma che strano. A me nessuno ha parlato di Dickie, non hanno neppure fatto il suo nome. Anzi, a dire il vero ho pensato che fosse molto più rilassante di ieri a casa di Peter.»

Tom alzò la testa e continuò a camminare senza fare commenti. Erano persone che lui disprezzava, e perché dirlo a Marge che apparteneva allo stesso genere?

Telefonarono al signor Greenleaf in albergo. Era ancora presto per cenare, così andarono a prendere l'aperitivo in un bar vicino al Gritti. Tom cercò di farsi perdonare per la sua esplosione al party chiacchierando amabilmente durante la cena. Il signor Greenleaf era di umore meno cupo perché aveva appena telefonato alla moglie e l'aveva trovata col morale alto e in discreta salute. Il medico che l'aveva in cura stava provando delle nuove iniezioni e a quanto pareva la donna rispondeva molto meglio che a qualunque altro trattamento provato fino a quel momento.

Fu una cena tranquilla. Tom raccontò una barzelletta molto pulita e divertente e Marge rise a crepapelle. Il signor Greenleaf volle offrire la cena e poi, non sentendosi del tutto a posto, manifestò il desiderio di tornare in albergo. Poiché aveva evitato accuratamente l'insalata e scelto, invece, un piatto di pasta, Tom sospettò che soffrisse di un disturbo intestinale. Ebbe l'impulso di suggerirgli un rimedio miracoloso facilmente reperibile in ogni farmacia, ma il signor Greenleaf non era il tipo d'uomo al quale si potesse dire una cosa simile, neppure se si fossero trovati a tu per tu.

Il signor Greenleaf annunciò che sarebbe tornato a Roma il giorno seguente e Tom gli promise di telefonargli verso le nove per sapere con che treno. Marge sarebbe partita con il signor Greenleaf e per lei andava bene qualunque treno. Tornarono a piedi in albergo e il signor Greenleaf, con il suo viso austero da sbrigativo uomo d'affari e il suo feltro grigio, sembrava un pezzo di Madison Avenue trapiantato assurdamente nei vicoli tortuosi di Venezia. Si dissero addio sulla soglia.

«Sono desolato di non poter passare più tempo con lei,» disse Tom.

«Spiace anche a me, ragazzo mio. Un'altra volta, forse,» rispose l'anziano gentiluomo dandogli una pacca affettuosa sulla spalla.

Tornando verso casa con Marge, Tom era radioso Era andato tutto splendidamente, decise Tom. Marge chiacchierava incessantemente, ridacchiando perché le si era rotta una spallina del reggiseno e doveva tenerla su con la mano. Tom, intanto, pensava a una lettera ricevuta quel pomeriggio da Bob Delancey; la prima, a parte una cartolina ricevuta secoli prima. L'amico gli raccontava che la polizia aveva interrogato tutti nel palazzo a proposito di una frode fiscale avvenuta alcuni mesi prima. Pare che il falsario avesse usato l'indirizzo di Bob per farsi mandare degli assegni che, presumibilmente, tirava fuori dalla sua cassetta delle lettere appena il postino ve li metteva. Anche il postino era stato interrogato e aveva dichiarato di ricordare perfettamente il nome del destinatario della misteriosa corrispondenza, George McAlpìn. Bob trovava l'episodio molto divertente. Il mistero era: chi aveva ritirato la posta indirizzata a George McAlpin? Tom si sentì rassicurato. Quella frode fiscale gli pendeva sulla testa come una spada di Damocle; di sicuro non poteva non venire scoperta e sapeva che prima o poi ci sarebbe stata un'inchiesta. Proprio non riusciva a immaginare come avrebbe fatto la polizia a collegare il nome di George McAlpin a quello di Tom Ripley. Inoltre, come Bob stesso gli aveva fatto notare, il falsario non aveva neppure cercato di incassare quegli assegni.

Arrivato a casa, si accomodò in soggiorno e rilesse la lettera di Bob. Marge era salita subito in camera per preparare la sua roba e andare a dormire. Anche Tom si sentiva stanco ma l'anticipazione della riconquistata libertà quando, il giorno dopo, Marge e il signor Greenleaf sarebbero partiti, lo riempiva di una tale eccitazione che avrebbe potuto star sveglio tutta la notte. Si tolse le scarpe, posò le gambe sui cuscini del divano, si adagiò comodamente contro lo schienale e continuò a leggere la lettera di Bob. «La polizia è convinta che si tratti di qualcuno che veniva da fuori a prendere la posta, perché nessuno degli straccioni di questo palazzo ha l'aria di essere un imbroglione...» Era strano leggere di tutta quella gente che conosceva a New York, di Ed e di Lorraine, per esempio, la ragazza dal cervello di gallina che aveva cercato di cacciarsi nell'armadietto il giorno che era salpato per l'Europa. Era strano e per nulla divertente. Che vita squallida conducevano! Strisciando dentro e fuori la metropolitana, vagando per qualche bar della Terza Strada come grande divertimento della loro esistenza e guardando la televisione. E anche se avevano abbastanza soldi per permettersi un bar di Madison Avenue, o un buon ristorante di tanto in tanto, com'era tutto grigio e deprimente paragonato all'ultima trattoria di Venezia con le sue montagne di insalata fresca, i suoi vassoi di formaggi pregiati e i suoi camerieri cordiali che servivano il miglior vino del mondo! «Ti invidio proprio, startene lì a Venezia in un vecchio palazzo!» scriveva Bob. «Scommetto che sei sempre in gondola! E le ragazze come sono? Stai diventando così colto e raffinato che non ci rivolgerai neppure la parola al tuo rientro? E quanto ancora pensi di fermarti?» Per sempre, pensò Tom. Forse non sarebbe mai più tornato negli Stati Uniti. Non era tanto l'Europa a farlo sentire così bene, quanto le serate passate per conto suo a Roma, e lì a Venezia. Serate in perfetta solitudine, a guardare cartine geografiche o comodamente seduto sul divano a sfogliare guide turistiche. Serate passate ad ammirare i suoi abiti, suoi e di Dickie cioè, e sentendo il peso degli anelli di Dickie nella mano, facendo scorrere le dita sulla morbida pelle di antilope della valigia che aveva comprato da Gucci. Aveva lucidato la valigia con uno speciale lucido inglese, non che ne avesse bisogno dato che la trattava sempre con molta cura, ma per nutrire e proteggere la pelle. Gli piaceva possedere degli oggetti, non molti, ma alcuni oggetti raffinati e selezionati con molta cura dai quali non doversi mai separare. Gli oggetti raffinati conferivano un'aria di rispettabilità a un uomo. Nessuna ostentazione, ma qualità sì. Possedere oggetti raffinati gli ricordava che esisteva e gli faceva godere la vita. Era un concetto molto semplice. E non ne valeva la pena? Lui esisteva. Non c'era molta gente al mondo che se ne rendeva conto fino in fondo, anche se aveva molto denaro. Non che ci volessero assolutamente i soldi o molti soldi, comunque, bastava una certa sicurezza. Ci era arrivato vicino con Marc Priminger. Le cose belle di Marc Priminger lo avevano attirato irresistibilmente, ed era quello che lo aveva fatto restare così a lungo in quella casa. Però quelle cose belle non gli appartenevano e con quaranta dollari alla settimana proprio non poteva neppure pensare di conquistarsi qualcosa che fosse suo, esclusivamente suo. Ci avrebbe messo tutta la vita, anche facendo economie all'osso, per comperare le cose che gli piacevano. Il denaro di Dickie gli aveva solo dato una spinta, un po' di slancio, nella strada che già percorreva da tempo. Il denaro gli dava la possibilità di visitare la Grecia, di collezionare vasi etruschi se gli saltava il ticchio di farlo (aveva appena letto un libro molto interessante sull'argomento, scritto da un americano residente a Roma), di iscriversi a qualche fondazione artistica e di devolvere il suo denaro per nobili scopi, se gliene veniva voglia. Il denaro gli offriva la possibilità, per esempio, di leggere il suo Malraux fino a tardi quella sera, dato che non aveva la preoccupazione di alzarsi presto il giorno dopo per andare a lavorare. Aveva appena acquistato un'edizione in due volumi della Psychologie de l'art di Malraux che stava leggendo con grande gusto in francese, aiutandosi di tanto in tanto con un dizionario. Gli venne voglia di schiacciare un pisolino e poi di leggere per un po', senza badare all'ora. Si sentiva assonnato e pigro malgrado i caffè. La curva del bracciolo del divano si adattava alla sua spalla come un braccio, o forse meglio di un braccio, di chiunque fosse. Decise che avrebbe passato la notte lì. In fondo era molto più comodo del divano al piano di sopra. Fra poco sarebbe salito a prendersi una coperta.

«Tom?»

Spalancò gli occhi. Marge stava scendendo le scale a piedi nudi. Tom si rizzò a sedere. La ragazza teneva in mano il suo cofanetto di pelle marrone.

«Ho trovato gli anelli di Dickie in questa scatola.» Sembrava senza fiato.

«Oh. Me li ha dati lui, perché ne avessi cura.» Si alzò in piedi.

«Quando?»

«A Roma, mi pare.» Fece un passo indietro, urtò in una scarpa e la prese in mano, più che altro per darsi un contegno.

«Cosa aveva intenzione di fare? Perché li ha dati a te?»

Doveva essersi messa a cercare del filo per cucire la spallina del reggiseno. Ma perché diavolo non aveva messo quei dannati anelli da un'altra parte, magari sotto la fodera della valigia? «Non saprei. Un capriccio forse. Sai com'è Dickie. Mi disse che se gli fosse successo qualcosa voleva che gli anelli li avessi io.»

Marge era perplessa. «Ma dove stava andando?»

«In Sicilia, a Palermo.» Teneva la scarpa con entrambe le mani in modo da usare il solido tacco di legno come un'arma se fosse stato necessario. Si figurò in un lampo come avrebbe fatto: l'avrebbe colpita con il tacco, poi l'avrebbe presa in spalla come un fagotto e l'avrebbe gettata nel canale fuori del portone principale. Avrebbe detto che era scivolata sui gradini sdrucciolevoli. Era una nuotatrice talmente provetta che lui aveva pensato che riuscisse a stare a galla da sola.

Marge fissò la scatola. «Allora è vero che stava per suicidarsi!»

«Sì... se vuoi vederla in questo modo... allora sì. È probabile che me li abbia dati per questo.»

«Ma perché non ne hai mai parlato prima?»

«Me ne sono completamente dimenticato. Li ho messi via con cura in modo da non perderli e non li ho mai più guardati dal giorno che me li ha dati.»

«Si è suicidato, oppure ha cambiato identità... non ti pare?»

«Sì,» annuì Tom tristemente ma fermamente.

«Sarà bene che tu ne parli al signor Greenleaf.»

«Va bene, lo farò. E ne parlerò anche alla polizia.»

«Praticamente questo sistema tutto,» affermò Marge.

Adesso Tom stringeva la scarpa fra le mani come fosse stata un paio di guanti, ma senza mollare la presa perché Marge lo fissava ancora in modo strano. Stava ancora pensando. Lo prendeva in giro, per caso? Aveva capito tutto, adesso?

Marge proseguì ansiosamente. «Non riesco a immaginare Dickie che si separa dai suoi anelli.» Tom capì che non aveva indovinato la verità, che la sua mente vagava a migliaia di chilometri di distanza, nella direzione opposta.

Si rilassò e si adagiò comodamente sul divano facendo finta di essere impegnato a infilarsi le scarpe. «Neanche io,» convenne meccanicamente.

«Se non fosse così tardi telefonerei immediatamente al signor Greenleaf. Deve essere a letto, ormai, e non chiuderebbe occhio se gli dicessi tutto adesso.»

Tom cercò di infilare il piede nella seconda scarpa. Aveva le dita molli, senza forza. Intanto si sforzava di trovare qualcosa di intelligente da dire. «Mi spiace di non averne parlato prima,» riuscì a brontolare con voce cupa, «è stata una deplorevole...»

«Già, a questo punto diventa assurdo da parte del signor Greenleaf far venire fin qui un detective privato, non ti pare?» La sua voce era incerta.

Tom la guardò. Stava per scoppiare a piangere. Questo era il primo momento, si rese conto Tom, in cui ammetteva a se stessa che Dickie potesse essere morto. Tom le andò vicino. «Mi dispiace, Marge, mi dispiace soprattutto di non averti parlato prima di questo episodio.» Le circondò le spalle con il braccio. Non avrebbe potuto evitarlo comunque, dato che lei si stava praticamente puntellando sul suo petto. Il profumo di lei lo raggiunse. Doveva essere lo Stradivari, «È uno dei motivi per cui, inconsciamente, ero così sicuro che Dickie fosse morto, che si fosse suicidato.»

«Sì,» rispose lei in tono avvilito e lamentoso.

Non piangeva, si limitava ad appoggiarsi pesantemente contro di lui con la testa ostinatamente china. Come qualcuno che ha appena appreso la morte di una persona cara, pensò Tom. Ed era così, infatti.

«Ti va un brandy?» le chiese in tono affettuoso.

«No.»

«Vieni qui e siediti un attimo,» la esortò guidandola verso il divano.

Lei sedette docilmente e lui attraversò la stanza per prendere il brandy che versò negli appositi bicchieri. Ma quando si girò lei se ne era andata. Fece appena in tempo a vedere l'orlo della sua vestaglia e un piede nudo sparire su per la scalinata.

Preferiva star sola, pensò Tom. Si avviò verso le scale per portarle il brandy ma cambiò idea. Era difficile che un brandy potesse esserle di aiuto in quel momento. Sapeva come doveva sentirsi. Depose con aria solenne i bicchieri sul mobile bar. Aveva pensato di portarne indietro uno solo, ma, quando si rese conto di aver messo via anche il suo, lasciò perdere e rimise in ordine le bottiglie.

Si abbatté pesantemente sul divano lasciando penzolare i piedi nel vuoto, troppo stanco ormai persino per togliersi le scarpe. Stanco come il giorno in cui aveva ucciso Freddie Miles, pensò improvvisamente, o dopo Dickie a San Remo. Ci era andato così vicino! Ricordò il suo freddo proposito di colpirla alla testa per farle perdere conoscenza; non troppo forte, però, per non provocare nessuna lacerazione compromettente e poi di trascinarla attraverso l'atrio fino al portone di ingresso con le luci spente in modo che nessuno potesse scorgerli. Ricordò la storia, inventata lì per lì; Marge era scivolata e lui aveva pensato che non avrebbe avuto difficoltà a tenersi a galla e a tornare da sola ai gradini, tanto che non aveva neppure gridato per chiedere aiuto finché... In un certo senso aveva già in mente le frasi che lui e il signor Greenleaf si sarebbero scambiati dopo il fatto, lo shock del signor Greenleaf e il suo abbattimento apparente, solo apparente però. Nel suo intimo sarebbe stato freddo e sicuro di sé come si era sentito dopo l'assassinio di Freddie, perché la sua versione dei fatti sarebbe stata inattaccabile. Come la versione dei fatti di San Remo. Le sue storie funzionavano sempre perché le viveva con tanta intensità nella sua mente da renderle plausibili e reali per tutti.

Per un attimo udì la sua voce dire: «...io ero proprio sui gradini e la chiamavo, sicuro che sarebbe riemersa da un momento all'altro, sospettavo che stesse persino facendomi uno scherzo... Però temevo che si fosse fatta male cadendo. Era talmente di buon umore un attimo prima, in piedi sui gradini...» Si contrasse. Era come se un giradischi stesse funzionando nella sua testa, come se una piccola e ineluttabile tragedia stesse avvenendo proprio lì, nel suo soggiorno, senza che lui potesse arginarla in alcun modo. Si vedeva sui gradini del portone, circondato dai poliziotti italiani e dal signor Greenleaf, mentre spiegava vivacemente la meccanica dei fatti. E loro gli credevano.

Ma la cosa che lo terrorizzò maggiormente non fu il dialogo o la sua certezza allucinatoria di aver compiuto anche quell'omicidio (sapeva bene che non era così), ma il ricordo di come si era trovato in piedi davanti a Marge con la scarpa in mano e il pensiero che correva da solo, lucidamente e metodicamente, senza che lui potesse farci nulla. E poi il fatto che tutto ciò gli era già successo due volte prima di allora. E quelle due volte erano stati eventi reali, non frutto della sua immaginazione. Certo poteva cercare di convincersi di non averli veramente voluti, però restava il fatto che li aveva compiuti. Non voleva essere un assassino. In certi momenti riusciva a dimenticarsi totalmente di aver ucciso. Ma in altri momenti, come quello a esempio, proprio non ci riusciva. Quella sera stessa, quando aveva pensato al significato degli oggetti raffinati, e della gioia di possederli, aveva completamente dimenticato di essere un assassino.

Si girò lateralmente poggiando i piedi sul divano. Stava sudando ed era scosso da un tremito convulso. Cosa gli stava capitando? Cosa era successo dopo tutto? Stava preparandosi a raccontare un sacco di storie al signor Greenleaf, di Marge che cadeva nel canale e delle sue grida di aiuto e di come si era buttato in acqua senza riuscire a trovarla, mentre Marge era lì con loro viva e vegeta? Possibile che finisse per dare i numeri e raccontasse comunque quella storia fantastica, e tradisse la sua natura maniacale?

Avrebbe dovuto affrontare il signor Greenleaf con la storia degli anelli il giorno dopo. Avrebbe dovuto ripetere esattamente la storia che aveva raccontato a Marge. Avrebbe dovuto raccontare altri particolari e migliorarla! Cominciò a inventare. Il tumulto nella sua mente si acquietò. Stava immaginando una stanza d'albergo a Roma, lui e Dickie erano in piedi e chiacchieravano, poi Dickie si toglieva entrambi gli anelli e glieli porgeva. «Sarà meglio che tu non parli con nessuno di questo...» diceva Dickie.

 

27

 

Marge telefonò al signor Greenleaf verso le otto e mezzo del mattino seguente per chiedergli a che ora dovevano passarlo a prendere in albergo. Ma il signor Greenleaf doveva essersi accorto che era successo qualcosa di grave perché subito dopo Tom la sentì raccontare la storia degli anelli. Usava le stesse parole usate da lui, non c'erano dubbi che gli avesse creduto, ma non c'era modo di indovinare le reazioni di Greenleaf. Tom temeva che il particolare degli anelli fosse il pezzo del rompicapo che avrebbe mandato a posto anche tutti gli altri e che di conseguenza, arrivando in albergo, trovassero ad attenderli non solo il signor Greenleaf ma anche la polizia pronta ad arrestare Tom Ripley. Questa possibilità annullò completamente il vantaggio di non aver dovuto raccontare di persona al signor Greenleaf il triste episodio.

«Cosa ha detto?» chiese Tom a Marge dopo che ebbe riappeso.

Marge sedette stancamente su una sedia dall'altra parte della stanza. «È della mia opinione. È stato lui per primo a dirlo. Sembra proprio che Dickie avesse intenzione di uccidersi.»

Ma prima che passassero a prenderlo, il signor Greenleaf avrebbe avuto ancora tempo per ripensarci. «A che ora ci aspetta?» chiese Tom.

«Gli ho detto che saremmo passati verso le nove e mezzo, forse anche prima. Subito dopo aver preso il caffè. L'ho già preparato.» Marge si alzò e andò in cucina. Era già pronta per partire. Indossava lo stesso vestito da viaggio di quando era arrivata.

Tom sedette con aria indecisa sul bordo del divano e allentò la cravatta. Si era addormentato sul divano completamente vestito, era stata Marge a svegliarlo quando era scesa pochi minuti prima. Come avesse fatto a dormire tutta la notte in quella stanza gelida proprio non riusciva a capirlo. Si sentì confuso. Marge era rimasta stupita nel trovarlo lì. Sentiva un dolorino al collo, alla schiena e alla spalla sinistra. Era a pezzi. Scattò in piedi. «Vado su a lavarmi,» gridò a Marge.

Al piano di sopra gettò un'occhiata nella sua stanza e vide la valigia di Marge già chiusa sul pavimento proprio in mezzo alla stanza. Tom si augurò che la ragazza e Greenleaf mantenessero il loro proposito di partire con uno dei treni del mattino. Era probabile poiché il signor Greenleaf doveva incontrarsi con il detective americano in giornata.

Tom si spogliò nella stanza accanto a quella di Marge, quindi andò in bagno e aprì la doccia. Dopo essersi lanciato un'occhiata allo specchio decise che prima doveva farsi la barba, così tornò in camera a prendere il rasoio elettrico che aveva portato via dal bagno, senza vero motivo, il mattino in cui era arrivata Marge. Nel tornare in bagno udì squillare il telefono. Rispose Marge e Tom si sporse sulla ringhiera per ascoltare.

«Oh, certo, va benissimo,» diceva lei. «Non ha nessuna importanza se non... certo, glielo dirò... Va bene, ci sbrighiamo. Tom si sta lavando... In meno di un'ora, certo. A più tardi.»

La sentì dirigersi verso le scale e fece un balzo indietro perché era completamente nudo.

«Tom?» urlò la ragazza. «Il detective americano è arrivato qui a Venezia! Ha appena telefonato al signor Greenleaf dall'aeroporto, sta venendo in città!»

«Ottimo!» le rispose Tom precipitandosi rabbiosamente in bagno. Chiuse la doccia e infilò la spina del rasoio nella presa. E se fosse stato sotto la doccia? Marge avrebbe urlato comunque, senza curarsi che lui la sentisse o no. Non avrebbe avuto pace finché non se ne fosse andata e Tom sperò che ciò avvenisse quella mattina stessa. A meno che lei e il signor Greenleaf non decidessero di fermarsi per vedere cosa cavava fuori quel dannato detective da lui! Tom sapeva che il detective era venuto fino a Venezia per parlare con lui, altrimenti avrebbe aspettato di incontrarsi con il signor Greenleaf a Roma. Tom si chiese se Marge se ne rendesse conto. Probabilmente no. Per farlo avrebbe avuto bisogno di un minimo di capacità deduttiva.

Tom indossò un completo e una cravatta di stile molto sobrio e scese a bere il caffè insieme a Marge. Aveva fatto una doccia talmente bollente da scorticarsi quasi la pelle e adesso si sentiva molto meglio. Durante la colazione Marge non parlò, se non per dire che la faccenda degli anelli avrebbe gettato una luce totalmente diversa su tutta la situazione sia agli occhi del signor Greenleaf che del detective. Questo significava, secondo Marge, che anche il detective non poteva non arrivare alla conclusione che Dickie si fosse suicidato. Tom si augurò che la ragazza vedesse giusto. Tutto sarebbe dipeso dalla prima impressione che riusciva a dare all'investigatore.

Era un'altra giornata grigia e cupa, in quel momento non pioveva, ma aveva piovuto ed era chiaro che nel corso della giornata avrebbe piovuto di nuovo. Tom e Marge presero la gondola per San Marco e camminarono da lì fino al Gritti. Telefonarono al signor Greenleaf dall'atrio e questi chiese loro di raggiungerli di sopra. McCarron era già arrivato.

Fu il signor Greenleaf stesso ad aprire. Strinse con aria paterna il braccio di Marge e salutò entrambi. «Tom...»

Tom si fece avanti. Il detective era in piedi accanto alla finestra. Era un uomo basso e tarchiato, di circa trentacinque anni. Aveva un viso aperto e sveglio. Moderatamente intelligente, fu la prima impressione di Tom, solo moderatamente.

«Questo è Alvin McCarron,» lo presentò il signor Greenleaf, «la signorina Sherwood e il signor Tom Ripley.»

Si strinsero la mano.

Tom notò una borsa portadocumenti nuova fiammante sul letto, sul quale erano sparse parecchie carte e alcune fotografie. McCarron, intanto, lo scrutava.

«Ho sentito che lei è amico di Richard, vero?»

«Lo siamo entrambi,» rispose Tom.

Furono interrotti brevemente per accomodarsi sulle sedie preparate dal signor Greenleaf. La stanza era piuttosto grande e riccamente ammobiliata con due finestre sul Canal Grande. Tom sedette su una sedia senza braccioli rivestita di raso rosso. McCarron si accomodò sul letto accanto alle sue carte. C'erano alcune copie fotostatiche che a Tom sembravano le riproduzioni delle ricevute di Dickie. C'erano anche parecchie fotografie di Dickie.

«Avete portato gli anelli?» chiese McCarron facendo correre lo sguardo da Dickie a Marge.

«Sì,» rispose Marge con aria di circostanza alzandosi per prenderli. Li tirò fuori dalla borsetta e li consegnò a McCarron.

Questi li porse a Greenleaf dopo averli guardati un attimo. «Li riconosce?» chiese. Il signor Greenleaf annuì. Marge assunse un'espressione oltraggiata, come se fosse lì lì per dire: «Io conosco gli anelli di Dickie quanto, o forse meglio, del signor Greenleaf!» Quindi McCarron si rivolse a Tom: «In che occasione glieli ha dati?»

«A Roma, credo verso il tre di febbraio. Non posso essere più preciso di così. Erano passati pochi giorni dall'assassinio di Freddie Miles.»

Il detective lo studiava con i suoi occhi indagatori ma cortesi. Alzò le sopracciglia mentre un paio di rughe fonde e nette si disegnavano sulla fronte. Aveva capelli castani molto ondulati, tagliati corti ai lati, con un'onda che gli cadeva sulla fronte. Un taglio giovanile, più da studente liceale che da uomo fatto. Quel volto, però, sapeva nascondere i propri sentimenti, pensò Tom, era un volto allenato. «E cosa le ha detto quando glieli ha dati?»

«Mi ha detto che se gli fosse successo qualcosa, voleva che fossi io ad averli. Io gli ho chiesto cosa pensava che potesse succedergli ma lui disse che non lo sapeva. Però non si sa mai.» Tom fece una pausa. «In quel particolare momento non sembrava più depresso che in altri momenti, per cui non mi è assolutamente passato per la testa che stesse pensando di suicidarsi. Sapevo che aveva intenzione di andarsene, tutto qui.»

«Dove?»

«A Palermo.» Tom lanciò un'occhiata a Marge. «Deve avermeli dati il giorno stesso che tu hai parlato con me a Roma, all'Inghilterra, ricordi? Quel giorno oppure il giorno prima. Ti ricordi la data?»

«Era il due febbraio,» rispose Marge sommessamente.

McCarron stava prendendo appunti. «E più precisamente,» chiese ancora rivolto a Tom, «che ora del giorno era? Le sembrava che avesse bevuto?»

«No, Dickie non beve molto. Mi pare che fosse nelle prime ore del pomeriggio. Poi ha aggiunto che sarebbe stato meglio se non avessi parlato degli anelli a nessuno, naturalmente io ero d'accordo con lui. Misi via gli anelli e me ne dimenticai completamente, come ho già detto alla signorina Sherwood... probabilmente perché avevo talmente introiettato la promessa di non doverne parlare con nessuno che ho finito per cancellare l'episodio dalla mente.» Parlava schiettamente, balbettando un po' senza rendersene conto, come avrebbe potuto capitare a chiunque in circostanze analoghe, pensò.

«E cosa ne ha fatto degli anelli?»

«Li ho messi in una vecchia scatola... una scatola che uso per tenerci vecchi bottoni.»

McCarron lo fissò senza parlare e Tom approfittò della pausa per rinfrancarsi un attimo. Da dietro quel viso pacioccone ma vigile, tipicamente irlandese, poteva arrivare di tutto, una domanda imbarazzante o l'affermazione nuda e cruda che non diceva la verità. Tom si ancorò saldamente a quelli che, nella sua mente, erano i fatti, ben deciso a difenderli fino all'ultimo respiro. In quell'attimo di silenzio Tom riuscì quasi a percepire l'ansimare di Marge e un colpo di tosse del signor Greenleaf lo fece sussultare. Il signor Greenleaf era straordinariamente calmo, quasi annoiato. Tom si chiese se avesse architettato qualche espediente contro di lui insieme a McCarron, magari basato sull'episodio degli anelli.

«Dickie è un uomo che potrebbe imprestare gli anelli solo per un po'? Aveva mai fatto gesti simili prima?» chiese ancora l'investigatore.

«No.» Marge rispose per lui, prima che Tom avesse tempo di aprir bocca.

Tom cominciò a rilassarsi. Si rese conto che McCarron non sapeva che peso dare all'episodio. Stava ancora aspettando la sua risposta. «Mi aveva imprestato altre cose, prima. Di tanto in tanto mi invitava a usare le sue cravatte o altri indumenti. Ma gli anelli sono un'altra cosa, effettivamente.» Aveva dovuto aggiungere l'ultimo commento perché era certo che Marge era al corrente di quella volta che Dickie l'aveva colto con i suoi abiti addosso.

«Proprio non riesco a immaginare Dickie senza i suoi anelli,» Marge si rivolgeva direttamente al detective. «Quello verde lo levava sempre quando entrava in acqua, ma se lo rimetteva subito dopo. Erano praticamente parte di lui. È per questo che sono convinta che avesse intenzione di suicidarsi o di cambiare identità.»

McCarron annuì. «Che voi sappiate, Dickie aveva dei nemici?»

«Nessuno,» gli rispose Tom. «Ci avevo già pensato anch'io.»

«C'è qualche motivo che possa giustificare il desiderio di nascondersi o di cambiare identità?»

Ruotando lentamente il collo dolorante Tom rispose: «Forse. Ma in Europa è praticamente impossibile. Avrebbe dovuto procurarsi un passaporto falso. In qualunque paese volesse andare avrebbe dovuto mostrare il passaporto. Avrebbe dovuto avere il passaporto persino per registrarsi in un albergo qualunque.»

«Ma lei mi aveva detto che poteva anche fare a meno di avere un passaporto,» lo corresse il signor Greenleaf.

«Sì, è vero. L'ho detto parlando di qualche alberghetto infimo nell'Italia meridionale. È una possibilità, certo. Però, dopo tutta questa pubblicità non credo proprio che riuscirebbe a rimanere nascosto per molto tempo,» ammise Tom. «Non è possibile che nessuno lo tradisca.»

«Allora è evidente che deve essersene andato usando il suo passaporto,» concluse McCarron. «Dato che fino in Sicilia abbiamo le sue tracce e lì si è registrato usando appunto il passaporto.»

«Già,» convenne Tom.

McCarron fece una pausa per scrivere alcuni appunti, quindi si rivolse di nuovo a Tom. «E lei che ne pensa, signor Ripley?»

McCarron non aveva ancora finito, pensò Tom. McCarron aveva ancora un sacco di domande da fargli e gli avrebbe chiesto di rivedersi da soli più tardi. «Temo proprio di essere dell'opinione della signorina Sherwood. Sembra proprio che Dickie intendesse suicidarsi, un suicidio premeditato. L'ho già detto anche al signor Greenleaf.»

McCarron guardò interrogativamente il signor Greenleaf, ma questi rimase muto guardando il detective con aria speranzosa. Tom ebbe l'impressione che McCarron stesse cominciando a convincersi che Dickie era morto e che la sua visita lì rappresentava soltanto un'enorme perdita di tempo e di denaro.

«Vorrei controllare di nuovo i fatti con lei,» annunciò McCarron cercando di andare avanti e concentrandosi sulle carte. «L'ultima volta che Richard è stato visto da qualcuno è il quindici febbraio a Napoli, mentre scendeva dalla nave in arrivo da Palermo.»

«Esatto,» annuì il signor Greenleaf. «Un portabagagli si ricorda di lui.»

«Da quel momento si perdono le sue tracce. Nessuna registrazione a suo nome in albergo, nessun segno di vita con nessuno.» McCarron guardò Tom e il signor Greenleaf.

«Nessuno,» disse Tom.

McCarron guardò Marge con aria interrogativa.

«Niente,» disse Marge.

«E lei, signorina Sherwood, quando lo ha visto per l'ultima volta?»

«Il ventitré novembre, il giorno in cui è partito per San Remo,» rispose Marge pronta.

«A quell'epoca lei stava a Mongibello, vero?» chiese McCarron pronunciando il nome della città con la «g» dura, dimostrando così la sua ignoranza dell'italiano, o quanto meno della lingua parlata.

«Sì,» rispose Marge. «L'ho mancato per un pelo in febbraio, a Roma, per cui l'ultima volta l'ho visto a Mongibello.»

Cara vecchia Marge! Sotto sotto Tom le voleva bene, dopo tutto. Aveva cominciato a volerle bene quella mattina, anche se subito dopo lei era riuscita a irritarlo. «A Roma stava cercando di evitare tutto e tutti,» le spiegò Tom. «Ecco perché l'hai mancato; quando mi ha dato gli anelli, infatti, ho pensato che fosse un modo per staccarsi da tutto e da tutti, andandosene a vivere in un'altra città, scomparendo dalla circolazione.»

«Ma perché?»

Tom improvvisò sul tema, parlando anche dell'omicidio di Freddie Miles e degli effetti che questo aveva avuto su Dickie.

«Crede che Richard sapesse chi era l'assassino di Freddie Miles?»

«No. Certo che no!»

McCarron aspettò che anche Marge gli dicesse la sua opinione.

«No,» esclamò Marge scuotendo la testa.

«Ci pensi un attimo,» continuò McCarron rivolto a Tom. «Pensa che questo fatto possa spiegare il suo comportamento? Pensa cioè che si sia nascosto per evitare di rispondere alle domande della polizia?»

Tom rifletté per oltre un minuto. «Non mi ha detto nulla che possa farmelo credere.»

«Pensa che Dickie avesse paura di qualcosa?»

«Non riesco proprio a capire di cosa.»

McCarron chiese ancora a Tom quanto stretta fosse l'amicizia fra Dickie e Freddie Miles e chi altri conosceva che fosse amico sia di Dickie sia di Freddie, se era al corrente che fra i due ci fossero questioni di denaro, o di donne... «Solo Marge, che io sappia,» aveva risposto Tom. Marge aveva protestato che lei non era affatto la ragazza di Freddie, per cui non avrebbe potuto esserci nessuna questione di rivalità per causa sua... E se lui, Tom, si considerasse il miglior amico di Dickie in Europa.

«Non direi,» rispose Tom a quest'ultima domanda. «Direi che la migliore amica fosse Marge Sherwood. E poi non conosco nessun altro degli amici di Dickie in Europa.»

Di nuovo McCarron studiò a lungo il viso di Tom. «Qual è la sua opinione sulle firme false?»

«Ma sono false poi? Non pensavo che fosse possibile dichiararlo con assoluta certezza.»

«Io non credo che lo siano,» intervenne Marge.

«Pare che i pareri siano divisi,» spiegò McCarron. «Gli esperti ritengono che la lettera che Dickie scrisse alla banca a Napoli fosse autentica, il che implica che se da qualche parte è stato commesso un falso, Dickie lo abbia voluto coprire. Ma facendo l'ipotesi che una di quelle firme sia falsa, ha qualche idea sulla persona che Dickie sta cercando di coprire?»

Tom esitò e Marge parlò per lui. «Conoscendolo come lo conosco io direi proprio che è impossibile che Dickie volesse coprire qualcuno. E perché poi avrebbe dovuto farlo?»

McCarron continuava a fissarlo, se per mettere in dubbio la sua onestà o per riflettere a quanto gli era stato detto, Tom proprio non riuscì a capirlo. McCarron aveva l'aspetto di un tipico rappresentante di automobili americano, pensò Tom: allegro, dignitoso, intelligenza media, capace di parlare di baseball con un uomo e di fare un complimento idiota a una donna. Tom non si stava facendo un'opinione troppo elevata di lui; d'altra parte, però, non era mai saggio sottovalutare il proprio avversario. Mentre Tom lo guardava, la bocca piccola e molle di McCarron si aprì: «Le spiacerebbe scendere con me per qualche minuto, signor Ripley? Se già non le ho portato via troppo tempo, naturalmente.»

«Ma certo!» accettò di buon grado Tom, alzandosi.

«Non ci metteremo molto,» disse McCarron al signor Greenleaf e a Marge.

Sulla soglia Tom sì arrestò di botto e si guardò indietro. Il signor Greenleaf si era alzato per dire qualcosa, ma Tom non lo ascoltò. Tom si rese conto improvvisamente che aveva cominciato a piovere, che una pioggerellina sottile e deprimente stava sferzando i vetri della finestra. Fu come l'ultima occhiata, sfocata eppure indelebile, di un condannato a morte: nella sua mente si fissò l'immagine di Marge, piccola e rannicchiata su una poltrona dall'altra parte della vasta stanza, e del signor Greenleaf che avanzava verso di loro, con l'incedere di un vecchio, gesticolando. Ma la visione più importante, per lui, fu la camera grande e lussuosa e, oltre i vetri, la distesa del canale in direzione di casa sua, invisibile in quel momento a causa della cortina di pioggia e che forse non avrebbe rivisto mai più.

Come in una scena al rallentatore il signor Greenleaf stava chiedendo: «Crede... crede che ci metterete molto?»

«Oh no, solo pochi minuti!» aveva risposto McCarron con il tono impersonale e deciso di un boia.

Si diressero verso l'ascensore. Era questo, dunque, il modo in cui si faceva? si chiese Tom. Una parola a bassa voce nell'atrio e si sarebbe trovato in mano alla polizia italiana. Poi McCarron sarebbe ritornato su in camera, entro pochi minuti, proprio come aveva promesso. McCarron aveva portato con sé un paio di fogli estratti dalla valigetta. Tom si perse nella contemplazione sbigottita di una decorazione verticale in rilievo accanto ai bottoni di comando dell'ascensore: una forma ovale incorniciata da quattro punti, sempre in rilievo. Ovale, punti, ovale, punti, fin giù, finché non toccarono terra. Pensa piuttosto a qualche osservazione sensata da fare sul signor Greenleaf, per esempio, cercò di imporsi Tom. Strinse le mascelle. Purché non si mettesse a sudare, proprio in quel momento! Non aveva ancora cominciato, in verità, ma era certo che si sarebbe trovato il viso madido di sudore proprio nell'atrio. McCarron gli arrivava a malapena alla spalla. Tom si girò verso di lui nel momento esatto in cui l'ascensore si arrestava a terra e gli disse con aria tetra, scoprendo i denti in un vago sorriso: «È la prima volta che viene a Venezia?»

«Sì,» rispose McCarron traversando l'atrio. «Ci mettiamo qui?» chiese indicando il bar. Parlava in tono cortese.

«Va bene,» rispose Tom accomodante. Il bar non era affollato, ma non c'era un solo tavolo che garantisse la totale intimità dalle orecchie indiscrete dei clienti degli altri tavoli. Possibile che McCarron avesse scelto un posto così poco riservato per accusarlo di omicidio, per sciorinargli uno dopo l'altro i fatti davanti al naso? Si accomodò sulla sedia indicatagli da McCarron. Il detective sedette con le spalle alla parete.

Arrivò subito un cameriere. «Signori?»

«Caffè,» chiese McCarron in inglese.

«Un cappuccino,» ordinò Tom per sé, poi rivolto all'investigatore: «Preferisce un espresso o un cappuccino?»

«Quale dei due è quello col latte, il cappuccino?»

«Sì.»

«Prendo quello, allora.»

Tom fece le ordinazioni per entrambi.

McCarron lo guardò. La sua bocca era atteggiata in uno strano sorriso obliquo, o forse insidioso? Tom si figurò tre o quattro esordi differenti. «Lei ha ucciso Richard, vero? Gli anelli sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso, non le pare?» Oppure: «Mi racconti qualcosa della barca di San Remo, signor Ripley, con tutti i particolari, intendo dire.» Oppure, avrebbe chiesto con aria mite: «Dove si trovava il quindici febbraio quando Richard arrivò a... a Napoli? Sì, lo so, ma dove viveva a quell'epoca? E dove ha vissuto in gennaio, per esempio?... Può provarlo?»

Ma McCarron taceva, si limitava a guardare le sue mani grassocce adagiate in grembo e a sorridere debolmente. Come se fosse stato così assurdamente semplice per lui sbrogliare quella matassa che non riusciva a decidere da che parte cominciare.

Al tavolo accanto al loro quattro italiani chiacchieravano come bertucce, emettendo di tanto in tanto gridolini e risatine stridenti. Tom aveva voglia di allontanarsi da quel chiassoso gruppetto. Ma rimase immobile.

Si era sottoposto a un controllo mentale talmente ferreo che sentiva il corpo dolergli per la tensione. Ma quella tensione, però, crebbe fino a trasformarsi in temerarietà e sfida. Si sentì chiedere, con voce incredibilmente calma: «Ha avuto tempo di parlare con il tenente Roverini passando da Roma?» Nel momento stesso in cui formulava la domanda si rese conto di avere uno scopo ben preciso: scoprire se McCarron aveva mai sentito parlare della barca di San Remo.

«No,» gli rispose McCarron. «Ho trovato un messaggio nel quale mi si diceva che il signor Greenleaf sarebbe arrivato a Roma oggi, ma era così presto che ho pensato di raggiungerlo io a Venezia, anche per parlare con lei.» McCarron continuava a fissare le sue carte. «Che genere di uomo era Richard? Come lo descriverebbe, intimamente voglio dire.»

Era questa la via scelta da McCarron, dunque? Ricavare qualche altro piccolo indizio qua e là, dalle parole che avrebbe usato per descrivere Richard? Oppure voleva solo un parere spassionato, che ovviamente non avrebbe potuto avere dai genitori di Dickie? «Voleva fare il pittore,» cominciò Tom. «Però sapeva bene che non sarebbe mai stato un grande pittore. Cercava di comportarsi come se la cosa per lui non avesse importanza, come se fosse perfettamente felice e avesse finalmente trovato, qui in Europa, il genere di vita che aveva sempre cercato.» Si passò la lingua sulle labbra. «Ma penso che la vita avesse cominciato ormai a presentargli il suo lato sgradevole. Il padre lo disapprovava, come lei forse sa. E Dickie si era cacciato in una situazione senza uscita con Marge.»

«Cosa intende dire?»

«Marge era innamorata di lui, e lui non era innamorato di lei, però si vedevano così tanto a Mongibello che lei non poteva smettere di sperare...» Tom cominciava a sentirsi più sicuro, ma continuò a fingere di non trovare le parole giuste. «Non me ne ha mai parlato apertamente. Aveva un'opinione molto alta di Marge. Le voleva anche molto bene, ma era evidente per tutti, e a Marge per prima, che non aveva nessuna intenzione di sposarla. Ma lei non se lo tolse mai completamente dalla testa. Credo che questo sia stato il vero motivo per cui Dickie è venuto via da Mongibello.»

McCarron ascoltava pazientemente e con comprensione. «Cosa intende dire con: 'non se lo tolse mai dalla testa'? Cosa faceva?»

Tom aspettò che il cameriere deponesse le due tazze con il cappuccino schiumoso sul tavolo, insieme allo scontrino. «Continuava a scrivergli, a dirgli che voleva vederlo, cercando però di non opprimerlo, di non essere invadente quando aveva la sensazione che lui volesse starsene per conto suo. Dickie me l'ha raccontato a Roma, l'ultima volta che l'ho visto. Dopo l'assassinio di Miles mi confessò di non avere nessuna voglia di vedere Marge, e che temeva che lei arrivasse da Mongibello non appena avesse saputo in che razza di guai si trovava.»

«Perché pensa che fosse così teso, dopo l'assassinio di Miles?» McCarron portò la tazza alla bocca, fece una mossa di disgusto, per il calore o per la mancanza di zucchero e agitò il cucchiaino nella tazza, mescolando vigorosamente.

Tom spiegò pazientemente che Dickie e Freddie erano molto amici, e Freddie, dopo tutto, era stato ucciso pochi minuti dopo aver lasciato l'appartamento di Dickie.

«Pensa che sia stato Dickie a uccidere Freddie?» chiese McCarron senza scomporsi.

«No, assolutamente.»

«E perché?»

«Perché non c'era nessun motivo perché dovesse ucciderlo... almeno nessun motivo di cui io fossi a conoscenza.»

«La gente in genere risponde, perché il tale, o il talaltro non era il tipo da uccidere qualcuno,» proseguì McCarron. «Lei pensa che Richard potesse essere il tipo da uccidere qualcuno?»

Tom esitò, cercando di scrutarsi fino in fondo e di rispondere la verità. «Non ci ho mai pensato. Non saprei neppure io quale è il tipo di persona capace di uccidere qualcuno. L'ho visto arrabbiato...»

«Quando?»

Torti gli parlò di quei due giorni a Roma, quando Dickie era stato furioso e frustrato per tutte quelle domande della polizia e aveva dovuto venir via dal suo appartamento per evitare le telefonate indiscrete di amici e di estranei. Tom collegò quello stato di irritazione crescente con quello di frustrazione per la mancanza di progressi nella pittura. Dipinse Dickie come un giovane orgoglioso e testardo, che nutriva grande rispetto e timore per il padre e che, di conseguenza, avrebbe fatto di tutto per sfidarne i desideri. Un tipo piuttosto imprevedibile, generoso verso gli amici e anche verso gli estranei, ma dagli umori instabili che variavano dalla più grande socievolezza alla ritrosia più inaccessibile. Riassunse la sua opinione con il giudizio che dopo tutto Dickie era un ragazzo normalissimo che voleva credere di essere straordinario. «Se si è ucciso,» concluse Tom, «penso che l'abbia fatto perché si è reso conto di certi suoi difetti... inadeguatezze, diciamo. Mi è molto più facile figurarmelo nelle vesti di suicida che in quelle di assassino.»

«Però non potrebbe giurare che non abbia ucciso Freddie Miles. Vero?»

McCarron era sincero. Tom ormai ne era certo. Adesso il detective si aspettava persino che lui difendesse Dickie a spada tratta, dato che erano stati amici. Tom cominciò a sentire la morsa del terrore che si allentava, solo in parte però, come se qualcosa stesse sciogliendosi, ma molto lentamente, dentro di lui. «No, non potrei giurarlo,» convenne Tom. «Ma proprio non ci credo, però.»

«Neanche io. Ma questo spiegherebbe molte cose, non le pare?»

«Sì,» convenne Tom. «Tutto.»

«Bene, questo è solo il mio primo giorno di lavoro, dopo tutto,» si consolò McCarron con un sorriso coraggioso. «Non ho ancora visto il verbale a Roma. È probabile che le chieda ancora di parlarle dopo che sarò andato a Roma.»

Tom lo guardò attonito: era finita! «Lei parla italiano?»

«No, non molto. Però riesco a leggerlo. Me la cavo meglio in francese, ma andrà tutto bene,» gli rispose McCarron come se la cosa non fosse importante.

Era importante, invece, pensò Tom. Non riusciva proprio a immaginare McCarron che otteneva da Roverini tutte le informazioni di cui era al corrente usando un interprete. E poi non sarebbe stato in grado di andare in giro e di chiacchierare con la gente, con la custode del palazzo dove viveva Dickie, per esempio. Sì, era molto importante invece. «Qualche settimana fa ho parlato con Roverini, proprio qui a Venezia. Gli porti i miei saluti.»

«Lo farò.» McCarron finì il suo cappuccino. «Conoscendo Dickie, dove pensa che potrebbe andare se volesse nascondersi?»

Tom si irrigidì di nuovo sulla sedia. Stava proprio toccando il fondo, pensò. «Ma, so di sicuro che l'Italia gli piace più di qualunque altro paese. In Francia non direi. La Grecia, invece, gli piace. Aveva parlato di andare a Majorca per un po'. Oh, anche la Spagna è una possibilità, direi.»

«Capisco,» sospirò McCarron con disappunto.

«Ha intenzione di tornare a Roma oggi stesso?»

McCarron aggrottò le sopracciglia. «Penso di sì; a meno che non riesca a dormire qualche ora qui a Venezia. Non tocco un letto da giorni, ormai.»

Resisteva molto bene, pensò Tom. «Credo che il signor Greenleaf stesse pensando al treno, poco fa. Ce ne sono due nel mattino e, probabilmente, altri nel pomeriggio. Aveva intenzione di partire oggi stesso.»

«Ma sì, possiamo partire anche subito dopo tutto.» McCarron prese lo scontrino. «Grazie mille per il suo aiuto, signor Ripley. Ho già il suo indirizzo e il suo numero di telefono, nel caso avessi ancora bisogno di lei.»

Si alzò.

«Le spiace se salgo con lei a salutare Marge e il signor Greenleaf?»

Non gli spiaceva. Salirono insieme. Tom dovette reprimere la voglia di fischiettare. Babbo non vuole, mamma nemmeno... Quel motivetto lo assillava.

Entrando nella stanza Tom guardò attentamente Marge alla ricerca di segni di ostilità. Ma la ragazza aveva soltanto un aspetto tragico, pensò, come se fosse appena rimasta vedova.

«Vorrei fare anche a lei qualche domanda da sola, signorina Sherwood,» chiese gentilmente McCarron. «Se non ha nulla in contrario,» disse poi rivolto al signor Greenleaf.

McCarron avrebbe proseguito. Tom si accomiatò da Marge e dal signor Greenleaf, nel caso fossero partiti quel giorno stesso per Roma e non li avesse più rivisti. Poi, rivolto a McCarron: «Sarò felice di venire a Roma in qualunque momento, se ritiene che possa esserle di aiuto. Penso di restare qui per lo meno fino alla fine di maggio.»

«Credo che qualcosa salterà fuori molto prima,» gli confidò McCarron con un radioso sorriso irlandese.

Tom scese nell'atrio insieme al signor Greenleaf.

«Mi ha rifatto le stesse domande,» lo informò Tom, «e poi mi ha chiesto il mio parere sul carattere di Richard.»

«E quale sarebbe questo parere?» chiese il signor Greenleaf in tono sconsolato.

Che si trattasse di suicidio o di fuga per nascondersi non avrebbe fatto molta differenza agli occhi dell'austero gentiluomo. Per lui entrambi quei comportamenti erano estremamente riprovevoli, Tom ne era certo. «Gli ho detto quello che penso sinceramente. Cioè che è il tipo capace sia di fuggire che di suicidarsi.»

Il signor Greenleaf non fece commenti, si limitò a dare una pacca gentile sul braccio di Tom. «Arrivederci.»

«Arrivederci, signor Greenleaf. Mi faccia avere sue notizie.»

Tutto era a posto fra lui e il signor Greenleaf, pensò Tom. E tutto sarebbe andato a posto anche con Marge. Aveva dovuto ingoiare la versione del suicidio e da quel momento in poi la sua mente non avrebbe potuto accettare nessun'altra ipotesi. Non aveva dubbi.

Tom passò il pomeriggio a casa, in attesa di una telefonata, anche se solo da McCarron per dirgli che non c'era nulla di nuovo. Ma il telefono rimase muto, tranne che per una telefonata da parte di Titti, la contessa, per invitarlo a un cocktail quella sera. Tom accettò.

E perché mai avrebbe dovuto aspettarsi guai da Marge, pensò. Non gliene aveva mai procurati, dopo tutto. Il suicidio era per lei un'idea fissa, e ormai avrebbe fatto i salti mortali nella sua mente ottusa per far collimare quell'idea con l'evidenza dei fatti.

 

28

 

Il giorno seguente McCarron telefonò a Tom da Roma per farsi dare i nomi di tutti coloro che avevano conosciuto Dickie a Mongibello. Apparentemente McCarron da lui voleva solo questo, dato che impiegò un tempo interminabile a prender nota di tutti i nomi e a controllarli con la lista che si era fatto dare anche da Marge. La maggior parte figurava già nell'elenco della ragazza, ma Tom ripeté ugualmente i nomi a uno a uno con i relativi indecifrabili indirizzi. C'era Giorgio, naturalmente, poi Pietro il barcaiolo, quindi la zia di Fausto, Maria, di cui non conosceva il cognome per cui dovette dare a McCarron una lunga e complessa spiegazione su come trovarne la casa, Aldo il droghiere, i Cecchi e persino il vecchio Stevenson, il pittore mezzo pazzo che viveva come un eremita subito fuori del paese e che Tom non aveva mai incontrato. Ci vollero parecchi minuti per elencarli tutti e, sicuramente, ci sarebbero voluti parecchi giorni per controllarli di persona a uno a uno. Non tralasciò nessuno, tranne il signor Pucci, che si era curato della casa e della barca di Dickie e che avrebbe sicuramente raccontato a McCarron, se già non lo aveva fatto Marge, che era stato Tom Ripley a recarsi in novembre a Mongibello per sistemare gli affari di Dickie. Tom non considerava troppo pericoloso il fatto che McCarron venisse a sapere che era stato lui a curare la vendita delle proprietà di Dickie, meglio però evitare rischi inutili. Per quanto riguardava gente come Aldo e Stevenson, McCarron poteva anche accomodarsi e farsi raccontare tutto ciò che sapevano!

«E a Napoli?» chiese McCarron.

«Nessuno che io conosca.»

«Roma?»

«Mi dispiace, ma non l'ho mai visto in compagnia di nessuno a Roma.»

«Non ha mai incontrato un pittore che si chiama... ah, sì, Di Massimo?»

«No. L'ho visto una volta,» rispose Tom, «però non ho mai avuto occasione di parlargli.»

«Che aspetto ha?»

«Ci siamo visti per la strada, ma io mi sono allontanato mentre Dickie gli parlava, per cui non l'ho guardato molto bene. Mi sembra che fosse alto più o meno un metro e settantacinque, sulla cinquantina, capelli neri spruzzati di grigio... Non mi viene in mente nient'altro. Ah sì, piuttosto massiccio e indossava un completo grigio chiaro, adesso ricordo.»

«Mmm, okay,» rispose McCarron con aria assorta, come se stesse annotando ogni parola di Tom. «Direi che non c'è altro. Grazie mille, signor Ripley.»

«Ma di nulla. Buona fortuna!»

Tom rimase in trepida attesa per parecchi giorni, proprio come avrebbe fatto chiunque nel momento cruciale della ricerca di un caro amico scomparso. Declinò l'invito a tre o quattro party. I giornali avevano rinnovato il loro interesse nella scomparsa di Dickie, probabilmente a causa della presenza in Italia di un detective privato americano assunto dal padre dello scomparso. Quando alcuni fotografi dell'Europeo e di Oggi si presentarono per fare alcune foto a lui e alla casa, Tom li congedò bruscamente, arrivò persino a prenderne uno particolarmente insistente per il braccio e a spingerlo fuori della porta. Per cinque giorni interi non successe nulla di importante, niente telefonate, lettere o altro, neppure dal tenente Roverini. In certi momenti Tom si immaginava il peggio, soprattutto al crepuscolo, ora in cui veniva sempre colto da una vaga e persistente depressione. Si figurava Roverini e McCarron che si incontravano e che elaboravano, insieme, la teoria che Dickie fosse in effetti scomparso in novembre. Vedeva McCarron che controllava la data di acquisto della macchina e che cominciava a fiutare la pista giusta nel momento in cui veniva a sapere che Dickie non era più tornato dopo la gita a San Remo e che, difatti, era stato Tom Ripley a recarsi a Mongibello a definire gli affari di Dickie. Valutava e rivalutava in continuazione il saluto stanco e apatico del signor Greenleaf il mattino della partenza da Venezia, decideva che era un chiaro saluto ostile e si immaginava che il vecchio signore tornasse precipitosamente a Roma dall'America e che, rendendosi conto che le ricerche per ritrovare Dickie non facevano un passo avanti, richiedesse indagini approfondite su Tom Ripley, quel cialtrone che aveva mandato con i suoi soldi in Italia a cercar di far rientrare il figlio a casa.

Ma la mattina Tom era di nuovo ottimista. L'aspetto più positivo era che Marge era assolutamente convinta che Dickie avesse passato quei mesi a deprimersi a Roma. Di certo la ragazza aveva tenuto tutte le sue lettere e non avrebbe esitato a tirarle fuori e a farle vedere a McCarron. Ed erano lettere ottime, su questo non c'erano dubbi. Tom fu felice di aver dedicato tanta cura nello scriverle. Sì, Marge era una carta a suo favore piuttosto che il contrario. Aveva fatto proprio bene a metter giù la scarpa, la notte che lei aveva trovato gli anelli di Dickie.

Ogni mattina ammirava dalla finestra della sua camera da letto il sole che sorgeva fra le brume mattutine, lottando con le nubi basse sui tetti della città così serena e vincendo, infine, in tutto il suo fulgore verso mezzogiorno. L'inizio così pieno di pace delle sue giornate era per lui una rinnovata promessa di un futuro sereno. Ormai le giornate si facevano sempre più calde. C'era più luce e meno pioggia. La primavera era alle porte e una di quelle mattine, una mattina più bella e radiosa di quelle che stava vivendo, sarebbe finalmente partito per la Grecia.

La sera del sesto giorno dopo la partenza del signor Greenleaf e di McCarron, Tom gli telefonò a Roma. Il signor Greenleaf non aveva nulla di nuovo da dirgli, proprio come Tom si aspettava. Marge era andata a casa. Fin tanto che il signor Greenleaf fosse rimasto in Italia i giornali avrebbero riportato qualche notizia sul caso ogni giorno. Ormai, però, gli elementi sensazionali cominciavano a scarseggiare.

«E sua moglie come sta?» chiese ancora Tom.

«Così così. Ho l'impressione che la tensione stia cominciando a mostrare i suoi effetti su di lei. Le ho parlato proprio ieri sera.»

«Mi dispiace,» rispose Tom. Forse avrebbe dovuto scriverle una lettera molto gentile, pensò; solo due parole amichevoli approfittando del fatto che il signor Greenleaf era via e che lei si trovava tutta sola. Rimpianse di non averci pensato prima.

Il signor Greenleaf annunciò che sarebbe ripartito entro la fine della settimana, via Parigi, per vedere i progressi compiuti dalla polizia francese, anch'essa interessata nelle ricerche. McCarron sarebbe andato con lui poi, se nulla fosse successo neppure a Parigi, sarebbero rientrati insieme negli Stati Uniti. «Ormai è evidente e non solo ai miei occhi,» commentò il signor Greenleaf, «che Richard è morto oppure che si nasconde deliberatamente. Non c'è un solo angolo al mondo in cui le nostre ricerche non abbiano avuto eco, tranne la Russia, forse. Mio Dio, Richard non ha mai mostrato una propensione per quel paese, vero Tom?»

«Per la Russia? No, almeno per quanto ne sappia io.»

Apparentemente l'atteggiamento del signor Greenleaf era, ormai, che se Richard non era morto poteva anche andare all'inferno. In quella telefonata, comunque, aveva prevalso il secondo stato d'animo.

Quella sera Tom andò a casa di Peter Smith-Kingsley. Peter aveva un paio di giornali inglesi, speditigli da alcuni amici, con la foto di Tom che gettava il fotografo di Oggi fuori di casa sua. Tom l'aveva già vista in un giornale italiano. Altre foto, presegli di sorpresa mentre camminava tranquillamente per strada, e foto di casa sua erano arrivate anche in America. Bob e Cleo gli avevano spedito alcuni ritagli di giornali e settimanali di New York. Entrambi trovavano la cosa terribilmente eccitante.

«Sono stufo marcio di questa storia,» annunciò Tom. «L'unico motivo per cui resto ancora da queste parti è il desiderio di essere educato e di rendermi utile se posso. Se un altro giornalista si azzarda a venire nel raggio di cento metri da casa mia lo ricevo a fucilate, questa volta!» Era irritato e nauseato sul serio, e il suo tono lo dimostrava chiaramente.

«Ti capisco, sai,» rispose Peter. «Verso la fine di maggio torno a casa. Se ti va di venire con me e di fermarti un po' a casa mia in Irlanda mi farai molto piacere. Lassù di pace ce n'è anche troppa, te lo assicuro!»

Tom gli lanciò un'occhiata furtiva. Peter gli aveva parlato del suo antico castello irlandese e gliene aveva fatto vedere alcune foto. Qualcosa, nel tipo di amicizia che lo legava a Peter, gli fece ritornare alla mente come in un incubo la sua amicizia con Dickie. La stessa cosa avrebbe potuto succedere anche con Peter, pensò Tom; con Peter, bravo ragazzone generoso, retto, ingenuo e indifeso. L'unico neo era che lui non somigliava affatto a Peter. Una sera, però, tanto per farsi quattro risate, Tom ne aveva imitato l'accento britannico, il modo di fare un po' affettato e il modo di inclinare lievemente la testa da un lato mentre parlava. Peter si era divertito un mondo. Non avrebbe dovuto farlo, decise Tom. Quella sera se ne vergognò amaramente, insieme al fatto di aver potuto pensare che quello che era successo con Dickie potesse ripetersi anche con Peter.

«Grazie,» rispose quindi. «Credo che sia meglio che me ne stia ancora un po' per conto mio. Dickie mi manca molto, sai. Proprio tanto.» Improvvisamente gli venne da piangere. Ricordò i sorrisi di Dickie quel primo giorno che avevano cominciato a capirsi, quando gli aveva confessato che era stato suo padre a mandarlo da lui. Gli tornò in mente quel primo folle viaggio a Roma. Ricordò con tenerezza persino quella misera mezz'ora passata al bar del Carlton a Cannes, quando Dickie aveva ostentato tanta noia e tanto risentimento. Dopo tutto aveva i suoi buoni motivi per essere annoiato e risentito: Tom l'aveva trascinato quasi di forza fin lì, mentre a Dickie non importava proprio nulla della Costa Azzurra. Se solo si fosse rassegnato a fare quel viaggio per conto suo, pensò Tom, se solo non fosse stato così avido e precipitoso, se solo non avesse sottovalutato così stupidamente il rapporto tra Dickie e Marge e avesse avuto la pazienza di attendere che questo si esaurisse per conto suo, nulla di tutto quello che era successo sarebbe avvenuto! Così lui avrebbe potuto vivere con Dickie fino alla fine dei suoi giorni, avrebbero potuto vivere, viaggiare e divertirsi insieme per sempre. Se solo non si fosse messo gli abiti di Dickie quel giorno...

«Ti capisco, amico mio, davvero,» cercò di rincuorarlo Peter dandogli una pacca sulla spalla.

Tom lo guardò attraverso la cortina di lacrime. Stava immaginandosi di essere con Dickie su un transatlantico che li riportava negli Stati Uniti per Natale, accolto dai genitori di Dickie come se fosse stato un secondo figlio, un fratello per il loro caro figliolo. «Grazie,» rispose Tom. La voce gli uscì rotta, come un singulto infantile.

«Sai, se non fossi crollato in questo modo avrei proprio pensato che in te c'era qualcosa che non andava!» lo rassicurò Peter con aria comprensiva.

 

29

 

Venezia

3 giugno, 19..

Caro signor Greenleaf,

Nel fare la valigia, oggi, mi sono imbattuto in una busta consegnatami da Richard a Roma e di cui, per qualche imponderabile motivo, mi ero completamente dimenticato fino a ora. Sulla busta c'era la scritta «Da non aprirsi fino al mese di giugno» ma ormai giugno è arrivato. La busta conteneva il testamento di Richard, nel quale lascia la sua rendita e tutte le sue proprietà a me. Sono stupefatto, quanto e forse più di lei, da questa decisione, eppure dal modo in cui è stato redatto il testamento (scritto chiaramente a macchina) sembra che fosse in totale possesso delle sue facoltà mentali.

Sono terribilmente spiacente di non essermi ricordato prima di questa busta, dato che avrebbe rappresentato la prova lampante che Richard intendeva togliersi la vita. All'epoca l'ho cacciata nella tasca interna della valigia e l'ho totalmente cancellata dalla mente. Richard me la consegnò l'ultima volta che lo vidi a Roma, quando ebbi l'impressione che fosse molto depresso.

Ripensandoci meglio, mi pare opportuno allegare alla presente una copia fotostatica del testamento, in modo che possa vederlo con i suoi occhi. Questo è il primo testamento che abbia mai visto in vita mia, per cui sono totalmente all'oscuro delle procedure legali da seguire. Cosa devo fare?

La prego di porgere i miei più vivi e rispettosi saluti alla signora Greenleaf e di rendersi conto della mia riluttanza e del mio dolore di fronte alla triste necessità di scrivervi questa lettera. Le sarei molto grato se potesse rispondermi con cortese sollecitudine. Il mio indirizzo sarà:

 

c/o American Express

Atene, Grecia

 

Nell'attesa le invio i miei più sinceri e rispettosi saluti,

Tom Ripley

 

In un certo senso era un po' come andare a caccia di guai, pensò Tom. C'era la possibilità che la cosa scatenasse nuove indagini e nuove perizie sulle firme, sia quella del testamento che quelle delle rimesse mensili, indagini accurate e inesorabili come solo le grosse compagnie di assicurazione e le grosse fiduciarie sanno compiere quando si tratta di proteggere il loro denaro. Ma ormai si trovava in quel preciso stato d'animo. Aveva acquistato il biglietto per la Grecia verso la metà di maggio, le giornate erano diventate sempre più limpide e calde, facendolo sentire sempre più irrequieto. Aveva ritirato la macchina dal garage nel quale l'aveva parcheggiata subito fuori Venezia e aveva fatto un giro sul Brennero fino a Salisburgo e a Monaco, poi giù passando per Bolzano e quindi dirottando per Trieste. Il tempo era stato magnifico ovunque, tranne che a Monaco, dove una pioggerella passeggera, primaverile, l'aveva colto di sorpresa mentre passeggiava per gli Englischer Garten. Era stata talmente mite che non aveva neppure cercato di ripararsi, ma aveva continuato a passeggiare imperterrito ed eccitato come un bambino al pensiero che si stava bagnando per la prima volta in vita sua di pioggia tedesca. Ormai gli restavano solo duemila dollari, in parte prelevati dal conto di Dickie e in parte rimasti dalla rendita dei primi mesi, dato che non aveva osato prelevarne altri a così poca distanza dalla tragedia. Il rischio incalcolabile che avrebbe corso nel cercare di incassare tutto il denaro di Dickie in un sol colpo, il brivido dell'azzardo, lo attirava inesorabilmente. Era talmente annoiato dopo le lunghe, tediose settimane prive di eventi passate a Venezia, durante le quali ogni nuovo giorno sembrava confermargli la rinnovata sicurezza e la monotonia della sua esistenza! Roverini aveva smesso di scrivergli del tutto. Alvin McCarron era rientrato negli Stati Uniti non senza avergli fatto un'ultima, inconcludente telefonata da Roma, dalla quale Tom aveva dedotto che il signor Greenleaf aveva deciso che Richard fosse morto oppure che si nascondesse volontariamente, per cui ogni ulteriore ricerca era del tutto vana. I giornali avevano smesso di interessarsi al mistero della scomparsa di Dickie per mancanza di notizie di rilievo. Tom sentiva dentro di sé un tale senso di vuoto e di sospensione che l'aveva quasi ridotto alla follia, finché non aveva preso la decisione di fare quel giro a Monaco in macchina. Rientrando a Venezia per prepararsi alla partenza per la Grecia e per chiudere casa, quella sensazione di vuoto si era acuita: stava recandosi finalmente in Grecia, in quelle isole gloriose e antiche, ma nelle vesti del timido, dimesso Tom Ripley, con un misero conto in banca di soli duemila dollari, per cui avrebbe dovuto pensarci due volte prima di comperarsi persino un libro sull'arte greca. Era insopportabile!

A Venezia aveva preso la decisione di fare del suo viaggio in Grecia un'epopea eroica. Avrebbe visto le isole greche, avrebbe nuotato, per la prima volta dacché era al mondo, come un essere umano coraggioso e ricco di personalità e di energia, e non come un piccolo, squallido individuo di Boston. Se poi entrando al Pireo fosse caduto dritto dritto fra le grinfie della polizia greca, avrebbe almeno conosciuto le gioie squisite delle giornate di navigazione, del vento impetuoso sulla prua della nave, della traversata del mare rosso cupo, proprio come Giasone o come Ulisse che ritornava in patria. Il signor Greenleaf non avrebbe ricevuto la sua lettera prima di cinque o sei giorni; nessun pericolo, quindi, di restare bloccato a Venezia con un telegramma proprio prima della partenza. Per questo motivo l'aveva imbucata solo tre giorni prima che la nave salpasse. D'altra parte era molto più saggio non mostrarsi troppo ansioso e ostentare una certa indifferenza rendendosi irreperibile per un paio di settimane; per tutto il tempo, cioè, che avrebbe impiegato ad arrivare ad Atene. Proprio come se il fatto di ricevere o no tutti quei soldi non lo riguardasse direttamente; non tanto, comunque, da indurlo a rimandare la sua partenza per quel viaggetto programmato ormai da tempo.

Due giorni prima di partire andò a prendere il tè a casa di Titti della Latta-Cacciaguerra, la contessa incontrata il giorno che aveva cominciato a cercar casa a Venezia. La cameriera lo fece passare nel soggiorno dove la contessa lo accolse con la frase che ormai non sentiva più da parecchie settimane: «Ciao, Tommaso! Hai visto il giornale del pomeriggio? Hanno ritrovato le valigie di Dickie! E anche i suoi quadri! Proprio qui a Venezia, all'American Express, pensa!» I suoi orecchini d'oro vibravano per l'eccitazione.

«Che cosa?» Tom non aveva ancora letto i giornali. Era stato troppo occupato a fare le valigie.

«Leggi, guarda qui! Tutti i suoi vestiti depositati a febbraio! Sono stati spediti da Napoli. Magari è qui a Venezia adesso!»

Tom leggeva. La corda che teneva insieme le tele si era allentata, diceva il giornale, e nel cercare di assicurarla meglio l'impiegato dell'agenzia aveva intravisto la firma R. Greenleaf sul quadro. Le mani di Tom furono agitate da un tremito talmente convulso che dovette stringerle con forza intorno al giornale per tenerle ferme. Il giornale diceva, ancora, che la polizia stava esaminando accuratamente tutti gli oggetti ritrovati alla ricerca di impronte digitali.

«Forse è vivo!» urlava intanto Titti.

«Non credo... cioè, non vedo proprio come questo fatto possa provare che è vivo. Può essere stato assassinato o può essersi suicidato dopo aver spedito il bagaglio. Il fatto poi che tutto sia stato registrato sotto un altro nome... Fanshaw...» Colse lo sguardo perplesso della contessa che sedeva irrigidita sul divano di fronte a lui, conscia del suo nervosismo. Fece uno sforzo, cercò di recuperare rapidamente il controllo di sé e proseguì spavaldamente: «Vedi? Stanno cercando delle impronte digitali. Non lo farebbero se fossero sicuri che è stato Dickie stesso a mandare quella roba. Perché mai avrebbe dovuto depositarli a nome di questo Fanshaw, se pensava di passarli a ritirare lui stesso? C'è persino il passaporto. Aveva spedito persino il suo passaporto!»

«Forse si nasconde sotto il nome di Fanshaw! Ma, mio caro, non ti ho ancora offerto una tazza di tè!» Titti si alzò prontamente. «Giustina, il tè per piacere, subitissimo!»

Tom si abbatté senza forze sul divano, nascondendosi sempre dietro il giornale aperto. E il nodo intorno al corpo di Dickie? Avrebbe ceduto anche quello, e magari per sua somma sfortuna proprio in quel momento?

«Carissimo, sei talmente pessimista, tu!» Titti gli stava dando dei colpetti affettuosi sul ginocchio. «A me sembra una notizia stupenda! E se le impronte digitali sono solo sue? Non sarebbe meraviglioso? Pensa se domani, camminando per le calli di Venezia, ti imbattessi faccia a faccia con Dickie Greenleaf, alias Fanshaw?» Scoppiò nella sua risata cristallina e gradevole che in lei era naturale quanto respirare.

«Qui dice che nelle valigie c'era assolutamente tutto: nécessaire da barba, spazzolino da denti, scarpe, soprabito,» proseguì Tom cercando di nascondere il suo terrore sotto un velo di pessimismo. «Non potrebbe essere vivo e abbandonare tutti i suoi effetti personali. L'assassino deve averlo spogliato completamente e poi deve aver deciso di sbarazzarsi in quel modo ingegnoso dei suoi abiti e delle sue cose.»

La logica dell'argomento zittì persino Titti per un attimo. Quindi proseguì imperterrita: «Vorrei che tu non fossi così pessimista e depresso almeno finché non sappiamo con sicurezza a chi corrispondono le impronte digitali. Dopo tutto stai per partire per una vacanza domani. Ah, ecco il tè!»

No, non domani, dopodomani, pensò Tom. Quanto bastava a Roverini per prendere le sue impronte digitali e confrontarle con quelle delle tele e delle valigie. Cercò di ricordare tutte le superfici piatte sulle cornici dei quadri e sugli oggetti in valigia, dalle quali fosse possibile rilevare impronte digitali decifrabili. Non ce n'erano molte, tranne che sugli oggetti del nécessaire da barba, ma sicuramente sarebbero riusciti a mettere insieme abbastanza frammenti da ricavare un'impronta completa e perfetta, se lo avessero voluto sul serio. L'unica ragione di ottimismo era che in fondo la polizia non aveva le sue impronte digitali e che non aveva nessun motivo di chiedergliele finché non fosse stato seriamente indiziato. E se già avevano le impronte digitali di Dickie ricavate da chissà cosa? E poi non era probabile che il signor Greenleaf si affrettasse a mandare le impronte di Dickie dagli Stati Uniti per accelerare le operazioni di controllo? C'erano un'infinità di oggetti dai quali sarebbe stato possibile ricavare le impronte di Dickie: oggetti personali lasciati negli Stati Uniti, nella casa di Mongibello...

«Tommaso, il tè si raffredda!» Titti lo stava richiamando gentilmente alla realtà con una lieve pressione sul suo ginocchio.

«Grazie.»

«Vedrai. Io sono fiduciosa. Almeno questo è un passo avanti sicuro verso la verità, per capire cosa è successo veramente. Ma adesso cambiamo discorso, se questo ti rende così tetro! Dove hai intenzione di andare dopo Atene?»

Cercò di concentrarsi sulla Grecia. Per lui la Grecia era incantata con l'oro delle armature degli antichi guerrieri e con l'oro del suo sole famoso. Si figurava statue in pietra dai visi forti e sereni, come le cariatidi della loggetta sull'Eretteo. Però non voleva andare in Grecia con la minaccia incombente delle impronte digitali. Si sarebbe sentito repellente come il più repellente dei topi che scorrazzavano nelle fogne di Atene, più misero del più lacero dei mendicanti che gli si sarebbero accostati nei vicoli di Salonicco. Tom nascose il viso fra le mani e scoppiò a piangere. La Grecia era finita, esplosa in mille pezzi come un palloncino dorato.

Titti gli circondò la spalla con il suo braccio grassottello e sodo. «Tommaso, su con la vita! Aspetta almeno di avere un vero motivo per essere così depresso!»

«Proprio non riesco a capire come mai tu non ti renda conto che questo è proprio un brutto segno!» replicò Tom in tono disperato. «Proprio non ci riesco!»

 

30

 

La cosa che gettò Tom nello sconforto fu che Roverini, che fino a poco prima gli aveva mandato messaggi regolari e amichevoli, non gli fece sapere assolutamente nulla circa il ritrovamento a Venezia delle valigie e delle tele di Dickie. Tom passò una notte insonne e un'intera giornata a camminare senza posa per la casa e a cercare di finire le ultime, interminabili incombenze legate alla sua partenza, come la liquidazione di Anna e Ugo e il pagamento dei conti presso i vari fornitori. Tom si aspettava di trovarsi la polizia alla porta da un momento all'altro. Il contrasto fra la fiduciosa serenità di alcuni giorni prima e lo stato di angoscia attuale lo dilaniava. Impossibile dormire o stare seduto tranquillo da qualche parte. L'ironia della compassione che gli mostravano Anna e Ugo, e quella degli amici che gli telefonavano a dozzine per sapere cosa ne pensasse del misterioso ritrovamento, era più di quanto potesse sopportare. L'ironia stava anche nel poter mostrare liberamente il suo pessimismo e il suo turbamento senza che nessuno si insospettisse. Al contrario ai loro occhi era perfettamente normale dato che, dopo tutto, c'era la possibilità che Dickie fosse stato assassinato; tutti davano grande importanza al fatto che gli effetti personali di Dickie e tutte le sue cose fossero nelle valigie ritrovate a Venezia, compresi il nécessaire da barba e il pettine.

E poi c'era la faccenda del testamento. Sicuramente il signor Greenleaf l'avrebbe ricevuto fra un paio di giorni, quando ormai la polizia avrebbe potuto appurare che le impronte digitali non appartenevano a Dickie. Non sarebbe stato difficile raggiungere la Hellenes per rilevare le sue impronte. Se fosse emerso che anche il testamento era un falso, non avrebbero avuto nessun riguardo verso di lui. Entrambi gli omicidi sarebbero risultati evidenti, come un gioco da bambini.

Quando venne il momento di salire sulla Hellenes, Tom si sentiva ormai come un fantasma ambulante. Erano giorni che non dormiva, non mangiava e andava avanti a forza di caffè e di nervi ormai ipertesi. Ebbe voglia di chiedere se a bordo c'era una radio, ma era evidente che c'era. La nave era piuttosto grande, con tre ponti sovrapposti e quarantotto passeggeri. Tom crollò meno di cinque minuti dopo che l'inserviente di bordo ebbe portato il suo bagaglio in cabina. Ricordò vagamente di essere rimasto steso supino sulla cuccetta, con un braccio contorto sotto il peso del corpo, troppo esausto per cambiare posizione. Quando riprese conoscenza la nave si stava muovendo, anzi non solo si stava muovendo, ma rollava dolcemente con un ritmo cullante che prometteva indomabili riserve di energia e un impeto inarrestabile capace di spazzare via qualunque ostacolo avesse incontrato sul suo cammino. Si sentiva un pochino meglio, tranne per il braccio che gli pendeva inerte e dolorante a causa della scomoda posizione, e che gli sbatteva contro il corpo in modo talmente incontrollato, mentre percorreva i lunghi corridoi della nave, da doverlo tener fermo con l'altra mano. Il suo orologio segnava le dieci meno un quarto, fuori era calata l'oscurità.

Alla sua sinistra si scorgeva un'ombra indistinta, probabilmente un lembo di Iugoslavia, e cinque o sei luci fioche in lontananza. Eccetto questo attorno a lui non c'era altro che mare, mare nero e cielo senza stelle, che inghiottivano la linea dell'orizzonte. A Tom sembrava di navigare verso un abisso di inchiostro. La nave, però, avanzava sicura e senza incontrare resistenze, mentre il vento proveniente dallo spazio infinito soffiava libero e vigoroso sul suo viso. Sul ponte non c'era nessun altro. Erano tutti sotto coperta, probabilmente a cenare. Era felice di essere solo. Il braccio stava gradualmente riprendendo vita. Tom si aggrappò alla ringhiera di prua, proprio dove si univa formando una stretta V, e respirò profondamente. Un coraggio temerario stava risvegliandosi dentro di lui. Cosa avrebbe fatto se il marconista avesse ricevuto, in quell'istante preciso, il messaggio di arrestare Tom Ripley? Sarebbe rimasto fiero ed eretto proprio come in quel momento. Oppure si sarebbe gettato con un balzo oltre la murata, compiendo un gesto che per lui avrebbe rappresentato l'atto di estremo coraggio, oltre che di fuga. Ebbene, e allora? Anche dalla posizione in cui si trovava udiva il fioco bip-bip della sala radio, situata proprio in cima alla possente struttura della nave. No, non aveva paura. Proprio così. Si sentiva esattamente come aveva sperato. Potersi guardare intorno, scrutare le acque scure che lo circondavano scevro da ogni paura, era una sensazione splendida quanto quella che si aspettava di provare nel veder apparire all'orizzonte le isole greche. Nella morbida oscurità estiva poteva guardare serenamente davanti a sé e vivere, nella sua immaginazione, l'apparizione delle miriadi di isolette, della collina sulla quale sorgeva Atene, costellata di costruzioni, e persino dell'Acropoli.

A bordo c'era anche un'anziana signora inglese, accompagnata dalla figlia, una zitella sulla quarantina nervosa ed esagitata che non riusciva a starsene sulla sdraio per più di dieci minuti a godersi il sole senza balzare in piedi e annunciare con voce tonante che «andava a fare un giro». La madre, al contrario, era una persona estremamente calma e controllata, con la gamba destra semiparalizzata e più corta dell'altra e il piede costretto in una speciale scarpa dalla suola molto spessa, e faceva fatica a camminare anche aiutandosi con un bastone. A New York una persona così avrebbe fatto impazzire Tom per la sua esasperante lentezza e i modi invariabilmente gentili. In quei giorni, però, Tom era di umore socievole tanto che passò lunghe ore a conversare amabilmente con lei sul ponte e ad ascoltare la storia della sua vita in Inghilterra e in Grecia, dove l'anziana signora era già stata nel lontano 1926. Arrivò persino ad accompagnarla nelle sue passeggiate sul ponte, offrendole il braccio, mentre lei continuava a scusarsi per il disturbo che gli stava arrecando ma evidentemente deliziata da tutte quelle attenzioni. D'altra parte la figlia era altrettanto palesemente deliziata perché qualcuno si prendeva cura della madre scaricandola da una pesante incombenza.

Non era da escludersi che la signora Cartwright fosse stata una vera arpia in gioventù, pensò Tom, anzi probabilmente era lei la responsabile delle nevrosi della figlia. Forse si era attaccata alla poveretta in modo così morboso da impedirle di avere una vita normale, o di sposarsi; probabilmente la vecchia meritava di essere gettata in mare a calci, piuttosto che essere accompagnata cortesemente nelle sue interminabili passeggiate e ascoltata nei suoi lunghi sproloqui. Ma che importanza aveva? Non sempre il mondo dava a Cesare quel che era di Cesare. E a lui, cosa aveva dato il mondo? Si riteneva fortunato oltre misura per essere sfuggito fino a quel momento alla prigione per il duplice omicidio; fortunato fin dal giorno in cui aveva deciso di assumere l'identità di Dickie. Nella prima parte della sua esistenza, però, il fato gli era stato palesemente avverso. Ma il periodo trascorso con Dickie e tutto ciò che era accaduto in seguito lo avevano ampiamente ricompensato. In Grecia, qualcosa sarebbe successo, lo sentiva, e non poteva essere qualcosa di buono. La sua fortuna era durata anche troppo. Supponendo anche che lo incastrassero per le impronte digitali, oppure per il testamento, fino a dargli la sedia elettrica, poteva forse dire che la morte sulla sedia elettrica, per quanto dolorosa, o la morte in generale, all'età di venticinque anni, fosse per lui un fatto talmente drammatico da non poter sostenere che la sua vita da novembre fino a quel giorno l'avesse pienamente giustificata? Certamente no.

L'unica cosa che rimpiangeva era di non aver fatto in tempo a vedere tutto il mondo. Voleva visitare l'Australia, per esempio. E l'India. Voleva vedere il Giappone. E poi c'era anche il Sud America. Il solo fatto di conoscere e ammirare l'arte di tutti questi paesi avrebbe potuto tenerlo occupato piacevolmente per una vita intera, pensava Tom. Aveva appreso molto sulla pittura negli ultimi tempi, persino cercando di imitare le mediocri opere di Dickie. Visitando i musei e le gallerie d'arte di Parigi e di Roma aveva scoperto un interesse per la pittura di cui non si sarebbe assolutamente ritenuto capace, forse anche perché si era sviluppato da poco tempo. Per quanto lo riguardava non aveva nessuna aspirazione a diventare un pittore, ma se avesse avuto abbastanza soldi, pensò, il suo più grande godimento sarebbe stato quello di collezionare tutti i quadri che gli piacevano e di aiutare giovani pittori dotati e a corto di denaro.

Passeggiando sul ponte con la signora Cartwright lasciava vagare incessantemente la sua mente in sogni di questo tipo, oppure si concentrava nell'ascolto dei lunghi monologhi della vecchia signora che non sempre erano interessanti. La signora Cartwright lo trovava affascinante. Glielo aveva detto parecchie volte, confidandogli quanto la sua presenza fosse stata importante per renderle gradevole quel viaggio. Si accordarono persino per incontrarsi in un albergo di Creta la seconda settimana di luglio, dato che solo a Creta il loro itinerario di viaggio si sarebbe nuovamente incrociato. La signora Cartwright avrebbe fatto un giro organizzato in autobus. Per quanto fosse assolutamente sicuro di non vederla mai più, Tom accondiscese a tutte le sue proposte e ai suoi suggerimenti. Intanto si immaginava di essere preso immediatamente, appena sbarcato, e di venir caricato su un'altra nave, o forse persino su un aereo, e riportato in Italia. Nessun messaggio radio che lo riguardasse era ancora arrivato, ma non poteva essere certo che lo avrebbero informato nel caso fosse arrivata qualche brutta notizia per lui. Il giornale della nave, un foglio ciclostilato che veniva distribuito tutte le sere, riguardava soltanto eventi di politica internazionale e certamente non avrebbe parlato del caso Greenleaf anche se ci fossero stati sviluppi e rivelazioni importantissimi. Per tutti i dieci giorni del viaggio, Tom visse in una strana atmosfera fatta di tragedia e di coraggio eroico e disinteressato. Immaginava eventi incredibili: che la figlia della signora Cartwright cadesse in mare e che lui si gettasse temerariamente in acqua per trarla in salvo. Oppure si vedeva mentre lottava strenuamente contro le acque che irrompevano fragorosamente da una falla apertasi in una paratia per tapparla con il suo stesso corpo. Si sentiva in preda a una forza e a una temerarietà straordinarie, quasi soprannaturali.

Mentre la nave si avvicinava alla terraferma, Tom rimase in piedi sul ponte insieme alla signora Cartwright. La donna gli raccontava di come era cambiato il porto del Pireo da quando l'aveva visto l'ultima volta, ma a Tom quei cambiamenti non interessavano minimamente. Il Pireo esisteva, e per lui contava solo quello. Non era più un miraggio, una chimera inafferrabile, era una massiccia collina sulla quale avrebbe presto camminato, era una fila di edifici che avrebbe potuto toccare. Se solo ci fosse arrivato!

Sulla banchina c'era la polizia in attesa. Contò quattro poliziotti, in piedi a braccia incrociate, con lo sguardo fisso sulla nave. Tom aiutò la signora Cartwright fino all'ultimo, la sostenne delicatamente sulla passerella, l'aiutò a scendere l'ultimo gradino sdrucciolevole fino alla banchina e infine salutò con aria sorridente la vecchia signora e la figlia. Dovevano aspettare in luoghi differenti che venisse scaricato il loro bagaglio, poi le due donne sarebbero partite alla volta di Atene sull'autobus del giro organizzato.

Con la guancia ancora umidiccia e calda per il bacio della signora Cartwright Tom si volse e camminò con lentezza e determinazione verso i quattro poliziotti. Niente scene, decise, avrebbe detto lui stesso il suo nome. Alle spalle dei poliziotti c'era una grande edicola e Tom ebbe voglia di comprare un giornale, forse glielo avrebbero permesso. Mentre si avvicinava i poliziotti lo fissarono al di sopra delle loro braccia incrociate e della loro posa impettita. Portavano divise nere con berretti a visiera. Tom sorrise debolmente. Uno di loro si toccò lievemente il berretto e si fece da parte, ma gli altri non lo circondarono. Ormai Tom ne aveva già superati due e si trovava proprio davanti all'edicola, mentre i poliziotti avevano ripreso a fissare davanti a sé, senza badargli.

Tom scrutò le file di giornali esposti sentendosi mancare. La mano corse automaticamente verso un noto quotidiano romano. Era di soli tre giorni prima. Estrasse alcune lire italiane di tasca, rendendosi conto solo in quel momento di non avere con sé alcun denaro greco; il giornalaio, però, accettò le lire italiane con la stessa disinvoltura che se fossero stati in Italia e gli diede persino il resto in moneta italiana.

«Prendo anche questi,» aggiunse Tom in italiano prendendo altri tre giornali italiani e l'edizione parigina dell'Herald Tribune. Lanciò un'occhiata ai poliziotti: lo ignoravano completamente.

Quindi tornò lentamente alla banchina dove gli altri passeggeri erano in attesa del bagaglio. Udì il saluto squillante e cordiale della signora Cartwright mentre passava ma fece finta di non averlo udito. Arrivato al suo posto si fermò e aprì il giornale italiano di tre giorni prima.

 

INTROVABILE ROBERT S. FANSHAW MITTENTE DEL

BAGAGLIO DI RICHARD GREENLEAF

 

diceva il goffo titolo in seconda pagina. Tom lesse avidamente l'articolo che seguiva, ma il suo interesse si risvegliò soltanto al quinto capoverso:

 

La polizia ha accertato alcuni giorni fa che le impronte digitali rinvenute sulle valigie e sui quadri sono le stesse dell'appartamento nel quale Greenleaf ha vissuto a Roma. È stato di conseguenza dedotto che lo stesso Greenleaf abbia depositato le valigie e i quadri...

 

Tom aprì avidamente un altro giornale. Ecco ancora la notizia:

 

In considerazione del fatto che le impronte digitali rinvenute sugli effetti personali contenuti nelle valigie corrispondono perfettamente a quelle ritrovate nell'appartamento occupato dal signor Greenleaf a Roma, la polizia ha concluso che il signor Greenleaf ha preparato e spedito personalmente i bagagli a Venezia. Si suppone che il signor Greenleaf possa essersi tolto la vita, gettandosi forse in acqua in stato di totale nudità. Altra ipotesi avanzata è che il signor Greenleaf sia tuttora vivo e vegeto sotto le spoglie di Robert S. Fanshaw o sotto altro falso nome. Un'altra possibilità è che sia stato assassinato subito dopo aver fatto le valigie o dopo essere stato costretto a farle nell'intento di sviare le indagini della polizia con la falsa pista delle impronte digitali...

Risulta comunque evidente l'inutilità di ogni ulteriore ricerca di Richard Greenleaf, dato che, nell'ipotesi che questi sia ancora vivo, lo è sotto false spoglie...

 

Tom era stordito e malfermo sulle gambe. Il riverbero del sole sul soffitto della banchina gli faceva male agli occhi. Seguì come un automa il portabagagli che stava trasportando le sue valigie verso il banco della dogana cercando di immaginarsi con un minimo di chiarezza, mentre il doganiere frugava frettolosamente fra la sua roba, che significato avesse per lui la piega presa dagli eventi. Significava che lui non era affatto sospettato. Significava che, in effetti, quelle impronte digitali costituivano una garanzia per la sua innocenza. Significava non solo che non sarebbe finito in prigione, che non sarebbe morto, ma che non era neppure indiziato. Era libero, libero! Tranne il particolare del testamento.

Tom montò sull'autobus per Atene. Uno dei suoi compagni di tavola si era seduto sul sedile accanto, ma Tom evitò di guardarlo, non sarebbe stato in grado di sostenere neppure la conversazione più banale. All'American Express di Atene avrebbe sicuramente trovato posta, ne era certo. Il signor Greenleaf aveva avuto tutto il tempo per rispondergli. Oppure gli aveva messo alle calcagna i suoi avvocati e ad Atene avrebbe trovato soltanto una secca e formale risposta negativa da parte di qualche ufficio legale di New York. Poi la prossima mossa sarebbe arrivata dalla polizia statunitense, con l'accusa di falso. Forse avrebbe già trovato tutti e due i messaggi all'American Express. Quel testamento avrebbe potuto rovinare tutto. Tom guardò il paesaggio primitivo e riarso che si stendeva fuori del finestrino. Non riusciva a gustare nulla. Oppure la polizia ellenica lo stava aspettando all'American Express. Forse i quattro uomini che aveva visto al porto non erano affatto poliziotti ma semplici militari.

L'autobus si fermò. Tom scese, raccolse il suo bagaglio e trovò un taxi.

«Le spiace fermarsi all'American Express, per favore?» chiese in italiano all'autista. Questi capì per lo meno la parola «American Express» e partì senza esitazioni. A Tom tornarono in mente quelle stesse parole dette all'autista del taxi di Roma, prima di partire per Palermo. Come era sicuro di sé quel giorno. Aveva appena evitato per un pelo Marge all'Inghilterra!

Quando vide l'American Express Tom si mise all'erta e scrutò le vicinanze dell'edificio alla ricerca di eventuali poliziotti. Ma forse lo attendevano dentro. Chiese in italiano all'autista di aspettare, questi capì e si toccò il berretto in segno di assenso. Tutto scorreva stranamente liscio, come la calma che precede la tempesta. Tom si guardò intorno nell'atrio dell'American Express. Non vide nulla di sospetto. Ma forse nell'attimo stesso in cui avrebbe pronunciato il suo nome...

«Avete posta per Thomas Ripley?» chiese in inglese a bassa voce.

«Reepley? Può ripetere, per favore?»

Tom ripeté docilmente.

L'impiegata si girò e prese alcune buste da una casella.

Tutto era tranquillo.

«Ci sono tre lettere per lei,» gli disse in inglese, sorridendogli.

Una era del signor Greenleaf. Una di Titti, da Venezia e l'altra di Cleo, rispedita dall'Italia. Aprì la lettera del signor Greenleaf.

 

9 giugno, 19..

Caro Tom,

ho ricevuto ieri la sua lettera del 3 giugno.

Devo dire che non ci ha sorpreso affatto, né mia moglie né me, come può immaginare. Entrambi eravamo consci che Richard le era molto affezionato, malgrado il fatto che non si sia mai sforzato di farcelo sapere nelle sue lettere. Come lei stesso ci fa notare, sembra che questo testamento sia la triste prova che Richard ha deciso di togliersi la vita. È una conclusione che tutti noi abbiamo, infine, dovuto accettare. L'unica altra ipotesi plausibile è che Richard abbia assunto un'altra identità, per motivi imponderabili, e viva sotto falso nome voltando le spalle alla sua famiglia.

Mia moglie concorda con me sul fatto che da parte nostra non possiamo che avallare le decisioni di Richard e lo spirito nel quale queste sono state prese, quale che sia il suo destino. Di conseguenza, per quanto riguarda il testamento, lei riceverà il mio totale appoggio. Ho consegnato la copia fotostatica che lei mi ha mandato ai miei legali di fiducia che si incaricheranno di tenerla aggiornata sui passi che compiranno nel fare il trasferimento a suo nome dei fondi e delle proprietà di Dickie.

Grazie ancora per la sua assistenza in occasione del mio viaggio in Italia. Si tenga in contatto con noi.

Con i migliori saluti,

Herbert Greenleaf

 

Era uno scherzo, per caso? Eppure la carta intestata Burke-Greenleaf era reale fra le sue dita, la sentiva spessa, lievemente ruvida, con l'intestazione in rilievo. Inoltre il signor Greenleaf non si sarebbe neppure sognato di fargli uno scherzo del genere. Tom tornò al taxi che lo attendeva in strada. No, non era uno scherzo. Ce l'aveva fatta! Aveva il denaro di Dickie e la libertà! E la libertà, come tutto il resto, era sua, sua e di Dickie. Avrebbe avuto una casa in Europa, e anche una negli Stati Uniti, se ne avesse avuto voglia. Il denaro della vendita della casa di Mongibello era ancora fermo in banca, pensò improvvisamente, forse avrebbe dovuto mandarlo ai Greenleaf dato che Dickie l'aveva messa in vendita prima di fare il testamento. Sorrise ripensando alla signora Cartwright. Doveva offrirle un enorme cesto di orchidee, quando l'avrebbe rivista a Creta, ammesso che si trovassero orchidee a Creta.

Cercò di immaginarsi il suo arrivo a Creta, l'isola dalla forma oblunga che si stagliava all'orizzonte con la sua cresta di crateri appuntiti, l'animazione sul molo mentre la nave entrava in porto, i facchini, ragazzini ancora in tenera età, che si gettavano avidamente sul suo bagaglio e sulle sue mance e lui ne avrebbe gettate a piene mani. Ce ne sarebbe stato per tutti! Poi vide quattro figure immobili, in attesa sulla banchina immaginaria: erano poliziotti dell'isola che lo aspettavano, che lo aspettavano pazientemente a braccia incrociate. Si tese spasmodicamente e la sua visione sparì. Avrebbe visto poliziotti in attesa in ogni porto dove fosse sbarcato? Ad Alessandria? Istanbul? Bombay? Rio? Inutile pensarci. Si rilassò sui sedili. Inutile rovinare il suo viaggio preoccupandosi di poliziotti immaginari. E poi, se anche avesse trovato dei poliziotti in attesa sul molo, questo non voleva dire per forza che...

«Donde, donde?» diceva intanto l'autista cercando vanamente di parlare in italiano.

«In albergo, per favore. Il migliore, il migliore, il migliore!»

 

FINE